Aurore e Marine sono due soldatesse di ritorno dall’Afghanistan. Il viaggio comprende, prima dell’auspicato sbarco in Francia, una sosta di decompressione a Cipro: tre giorni in cui prepararsi a un reinserimento familiare che potrebbe rivelarsi traumatico, ore fatte d’incontri con terapeuti militari e svago preconfezionato. Un’ennesima prova di forza di due giovani donne in un mondo prevalentemente maschile, in cui il testosterone detta leggi e crea tensioni. Aurore e Marine sembrano finite lì per caso: per vedere il mondo – come recita il titolo – e per sfuggire a una quotidianità segnata da regole feroci e impassibili. I soldati irrompono nel resort a cinque stelle, affacciato su un mare cristallino che appare immaginifico su Google Earth, come una torma di insetti.
La cifra principale di Voir du pays, opera seconda delle sorelle Delphine e Muriel Coulin, autrici di 17 ragazze, è proprio nella perenne sensazione di straniamento, nel racconto impostato come se ogni personaggio si trovasse fuori luogo e fuori tempo, senza la capacità di fondere e confondere il cambiamento di vita che si affaccia davanti ai loro occhi. Le due donne, forza minoritaria e guardata con diffidenza dai commilitoni maschi, cercano di ritrovare il senso del quotidiano attraverso semplici gesti, che comprendono la riconquista di una sessualità diversa, cancellata dal cameratismo di facciata cui devano adeguarsi.
Le Coulin faticano un po’ a dettare i ritmi del film, che stenta a trovare, all’inizio, una coerente miscela tra trovate stilistiche sempre puntuali e l’immersione in una storia che non ammette esitazioni femminili. Ma man mano che il film va avanti, e che le uniformi sono deposte per lasciare spazio alle individualità, il film trova il suo tono, che è quello della rivendicazione al contrario di una differenza di genere. Come i presunti padri di 17 ragazze tendevano a scomparire, i soldati, feroci di una rabbia imperscrutabile, di Voir du pays, mostrano la loro aggressività, la loro tendenza all’esclusione, il loro bisogno ferino di affermazione sessuale.
È proprio qui che il film trova un suo equilibrio: le Coulin, che avevano nel loro bel film precedente affermato un senso di distinzione emotiva e comunitaria nella scelta irresponsabile di maternità, ribadiscono il senso di diversità irriducibile. Il senso di straniamento lascia quindi spazio a una guerra di sessi, dove la battaglia, rivissuta con medica precisione nelle sessioni di realtà virtuale cui sono sottoposti i soldati, assume un carattere quasi metaforico. Quello che dovrebbe essere un momento ricreativo e catartico diventa uno strumento di tortura (À rebours) utile più alla divisione che alla condivisione. Fino a quando la natura seduttiva, per autoaffermazione più che per passione, delle giovani donne diventa scatenamento di un’aggressività repressa.
Voir du Pays è un film coraggioso (al di là di qualche balbettio in un finale eccessivamente evocativo e simbolico) che conferma un talento registico istintivo – un paio di scene: la passeggiata verso una festa di paese o l’ingresso delle truppe nell’hotel popolato da turisti – e mostra una consapevolezza evocativa invidiabile, che espone e spoglia le protagoniste delle loro certezze combattendo l’ideologia dell’uguaglianza in nome della libertà, smascherando le ipocrisie propagandiste di un universo che si definisce a suon di dimostrazioni di palle.
Al resto pensano le interpretazioni commoventi e puntuali di Ariane Labed – sublime – e di Soko: un altro femminile è possibile, sembrano dire le Coulin, ma forse non nella gabbia feroce di una caserma. Il mondo si può scoprire in maniera diversa, in direzione ostinata e contraria.