Sud della Francia, anni Cinquanta. La giovane Gabrielle (Marion Cotillard) è innamorata del suo professore di letteratura. Lui non ricambia e lei, arrabbiata e delusa, ha un esaurimento nervoso che la porta quasi al suicidio. I genitori, per evitarle il ricovero in una clinica psichiatrica, incoraggiano il corteggiamento del bracciante José (Alex Brendemühl), rispetto al quale, però, Gabrielle è del tutto indifferente. Il matrimonio si celebra ma per volere di lei il rapporto fra due è del tutto inesistente: nessun coinvolgimento, nessun sentimento e nessuna passione. Quando la donna si reca in una clinica alpina per curare i calcoli renali che le impediscono di avere figli, conosce André (Louis Garrel), un soldato francese, reduce della guerra di Indocina, del quale si innamora perdutamente. Lui ricambia i sentimenti di Gabrielle, ma quando le sue condizioni di salute peggiorano e deve lasciare la clinica per l’ospedale, le vecchie ossessioni della donna tutto d’improvviso tornano a ravvivarsi.
Tratto dal romanzo di Milena Agus “Mal di pietre” (2006), ma con l’azione spostata dalla Sardegna al sud della Francia, Mal de pierres adatta fedelmente e con grande cura il libro. Senza fronzoli e senza eccessi, con la dovizia di una (buona) fiction televisiva.
Solido, classico, calligrafico: un film che spinge sin dall’inizio il tasto del mélo di cui è intessuto il testo letterario e ne asseconda canoni e cliché. Cliché che riconosciamo anche nei tratti che caratterizzano Gabrielle, la quale a dispetto delle intenzioni della regista di farne un personaggio ribelle e troppo moderno per i tempi nei quali vive, non riesce mai veramente a scollarsi di dosso l’eccessiva letterarietà di cui è intessuto. Ovvero a restituire l’interiorità resa dalla parola scritta con la necessaria efficacia. E in effetti Marion Cotillard, pur brava, rimane imbrigliata negli stereotipi della donna consumata dai tormenti dell’amore e incapace di affidare la propria felicità e realizzazione a qualcosa d’altro. Non proprio un esempio di donna emancipata, quindi, ma tuttavia decisamente in linea con la costruzione formale e classica di un film che non ha difetti evidenti o imperfezioni macroscopiche. Ma il cui maggior difetto è forse proprio la sua stessa medietà.