Il ritmo è una successione di accenti, e Victoria, opera seconda di Justine Triet dopo La bataille de Solferino, è un film incentrato sul ritmo.
Una specie di jazz session in cui l'improvvisazione è però solo apparente. Sulla base ritmica, incalzante e precisa, data dalla struttura narrativa e dal succedersi delle sequenze, infatti, lavora l'interpretazione rutilante di Virginie Efira, regina indiscussa della scena. Victoria, come dichiara il titolo stesso, è in sostanza un one woman show che ruota interamente intorno al personaggio di questa affasciante avvocatessa, madre di due bambine separata dal marito, tanto jazzy quanto completamente fucked up.
La storia di Victoria, al di là delle sue intemperanze, delle sue debolezze, dei suoi difetti, prende corpo attraverso i due processi paralleli: quello in cui la protagonista difende l'amico accusato di aver accoltellato la fidanzata e quello in cui invece è lei ad aver fatto causa all'ex marito colpevole di aver messo la sua vita in pubblico in una serie di racconti pubblicati su un blog.
A partire dall'alternanza tra i due processi (momenti in cui finzione e realtà cortocircuitano per natura), si articola il discorso intorno alla rappresentazione del sé. Proprio dalla combinazione tra la scrittura del personaggio e l'interpretazione, scaturisce infatti quel senso di improvvisazione che dà al film il tono brillante che lo caratterizza.
Ma è appunto una sensazione non una realtà, il che diventa particolarmente significante in un testo in cui si riflette proprio sull'uso della parola, della retorica, della scrittura come messa in scena dell'identità propria e altrui e sul successo che dall'efficacia di questa messa in scena ne consegue.