A proposito di strane coppie. Che ne dite di un rapper francese di origine araba, un ventenne ribelle che vive per la strada e su youtube, costretto ad attraversare la Francia insieme a Gérard Dépardieu in versione sciovinista e anti-musulmana, un operaio del nord appassionato di pittura e di mare?
Trattasi di road movie - anfibio, un misto d'acqua e asfalto - nella più classica delle trame a tesi (con morale), di quelle in cui sai fin dall'inizio che i due protagonisti diventeranno amici e quindi si tratta di rendere il viaggio (fisico e metaforico) credibile, sincero, appassionante.
Una bella sfida per un regista come Rachid Djaïdani, che nel 2012 ci aveva conquistato con un film fondato sull'improvvisazione, il camera a mano, la realtà catturata più che messa in scena, la verità che si rivela all'improvviso (Rengaine, frutto di 9 anni di lavoro, presentato sempre alla Quinzaine).
Diciamolo subito: la scommessa è vinta. Tour de France, film più convenzionale ma tutt'altro che ovvio, conferma la "mano felice" di questo filmaker scrittore attore documentarista ex boxeur, che conosce la strada e la sua musica, e ha un debole per i personaggi in bilico tra diverse identità (paesi, culture, religioni).
Djaïdani è riuscito nell'impresa di tenere fede al proprio modo di far cinema, diretto, sporco, intuitivo, rispettando però le esigenze di un progetto studiato a tavolino, di uno script importante e di un attore decisamente ingombrante.
Depardieu è magnifico nella parte di Serge, francese medio innamorato dei paesaggi di Joseph Vernet, deciso a ripercorre il suo tragitto pittorico da un porto all'altro (si cimenta anche in una struggente scena madre recitata di spalle). Lo accompagna Far'Hook-Sadek, un giovane rapper che fa le veci del figlio, un ragazzo pieno di risorse a cui affideresti volentieri il futuro della Francia e dell'Europa intera.
Ovviamente, alla fine, i due troveranno nell'altro una parte di sé che non conoscevano. Ovviamente il francese anti-immigrati diventerà consapevole dei propri pregiudizi, vedendo finalmente l'uomo dietro l'arabo e lo straniero. Ma Djaïdani riesce ad evitare quasi tutte le trappole, si concede qualche banalità declamatoria e didascalica, ma risulta divertente e commovente, fa buon cinema e anche buona musica, svolgendo un tema la cui urgenza è evidente a tutti.