Forse è presto per dirlo, ma Kantemir Balagov, il regista esordiente di Tesnota - Closeness, film russo presentato al Certain regard e prodotto fra gli altri da Aleksandr Sokurov, potrebbe essere uno di quegli autori che hanno fatto il loro esordio al Festival di Cannes e che da Cannes sono stati poi consacrati. Come Xavier Dolan e più ancora Cristian Mungiu o László Nemes.
Kantemir Balagov, classe 1991, è un regista vero: sa lavorare con lo spazio, sa dove posizionare la macchina da presa, sa usare il formato 4:3, sa lavorare con gli oggetti, sa accettare e sfruttare la luce piatta del digitale, sa cogliere la forza espressiva dei suoi interpreti. Il suo film, ambientato a Nalchik, capitale della Repubblica Autonoma di Kabardino-Balkaria, nel 1998, nel breve periodo (tre anni) di pacifica tensione fra la prima e la seconda guerra cecena, è la storia di una ragazza, di una famiglia, di una comunità, di una città, di una regione, di un Paese. Come un quadro che tiene al suo interno diverse cornici, Closeness sa considerare ogni suo personaggio - a cominciare ovviamente dalla protagonista Ilana, 24 anni, figlia maggiore di una famiglia di origini ebraiche in una città che non vede di buon occhio la presenza degli ebrei - in relazione al proprio contesto e al proprio tempo.
E in questo senso, raccontando la storia di come Ilana vive la propria giovinezza nel soffocante mondo familiare a cui appartiene, dall'officina meccanica in cui lavora a fianco del padre alla casa dove domina la madre severa e dove la comunità ebraica celebra le proprie feste, è pienamente un racconto di formazione: perché colloca la sua protagonista in uno spazio-tempo preciso e ne osserva gli spostamenti, i mutamenti, le relazioni e gli scontri.
Balagov si situa esplicitamente fuori dal suo stesso film, commentando con proprie parole l'inizio e la fine e lasciando i personaggi al loro destino. Come se Ilana non gli appartenesse e la scoprisse nel momento stesso in cui la filma: da qui, probabilmente, nasce la forza del suo stile diretto, la sua precisione, la sua urgenza (e per una volta questo abusatissimo aggettivo ha un senso).
Tesnota è un film fatto di particolari, dai vestiti poveri e dignitosi indossati dai personaggi (siamo a fine anni '90 ma è come se il tempo non fosse passato, come se gli anni 80 dell'Unione sovietica fossero ancora presenti) al biglietto con su scritto un numero di telefono con il quale la madre annuncia a Ilana il rapimento dell'adorato fratello minore e la richiesta di un riscatto.
La storia di Ilana - l'affetto per il padre, il conflitto con la madre, la relazione con un ragazzo kabardino (che le chiede di non esplicitare le sue origini ebraiche), le serate a base di alcol e droga, la perdita della verginità, la necessità di un matrimonio d'interesse per pagare il riscatto, la vita nomade a cui da sempre è condannata la sua famiglia, la ribellione contro i genitori, la collera, l'orgoglio, la dignità - non viene mai svincolata da un contesto storico che pesa su ogni inquadratura.
Il conflitto ceceno si vede in alcuni spaventosi filmati registrati su una vhs di videoclip, la nascita dell'integralismo islamico si scorge nei testi delle canzoni pop cantate dai ventenni, i monumenti dell'era sovietica aprono e chiudono il film. Ilana (interpretata dalla bravissima Darya Zhovner) ha occhi grandi, volto anonimo e sguardo inafferrabile, capelli sempre spettinati, vestiti trasandati: attraversa lo spazio del film, i luoghi spogli e spesso notturni di una città anonima e grigia, con un'energia da eroina della nouvelle vague, con una violenza sgraziata che nessuno contiene, né l'affetto quasi incestuoso del fratello, né l'amore violento del fidanzato (e la loro unica scena di sesso è di una potenza indimenticabile), né il silenzioso dolore del padre, né l'abbraccio della madre (il personaggio più complesso e ambiguo del film) in un finale meraviglioso per una volta non riconciliato e tutto giocato sulla frustrazione delle attese dello spettatore.
Balagov non segue la sua Ilana, non indugia nel solito pedinamento di spalle che ormai nel cinema contemporaneo non ha più alcuna esigenza formale o narrativa; in Tesnota la macchina da presa non sta vicino ai personaggi, non ne scruta il corpo e la postura, ma attraverso piani fissi, primi piani, inquadrature strette, colori e ombre che scolpiscono o appiattiscono cerca sempre di coglierli dentro lo spazio, di osservarli nel momento in cui danno forma al mondo rappresentato. E così facendo genera la tensione dei corpi e dei sentimenti, dei ricordi e dei retaggi, sempre all'interno dell'inquadratura o attraverso gli stacchi di un montaggio calibrato e dai tempi giusti. Fare esempi e renderne l'effetto sarebbe impossibile, dal momento che bisogna stare dentro il film - dentro questo film - per viverne appieno le soluzioni di regia mai sbagliate (a parte forse qualche scivolamento nel finale, con un campo lungo di Ilana che osserva dall'alto la sua città fuori tono rispetto alla chiusura soffocante del formato quadrato) e la straordinaria potenza visiva.
Forse è nato un regista, forse si è visto un capolavoro.