Una ragazza di 23 anni che piange disperata in mezzo a una strada: è appena stata lasciata dal ragazzo e non ha un posto dove andare. Decide di tornare dal padre divorziato, che l’accoglie in casa e la consola. Lui le dice delle frasi di circostanza, come si usa fare in questi casi, ma bastano pochi minuti di conversazione perché un dettaglio colga l'attenzione di lei: una borsa di una donna lasciata sul tavolo. «C’è qualcuno in casa?», «Sì, non sono solo». Il trauma della fine della relazione si sovrappone immediatamente alla gelosia per la nuova relazione del padre. Jeanne (Esther Garrel), la figlia, ha infatti la stessa età di Ariane (Louise Chevillotte), l’amante del padre.
Garrel costruisce con L’Amant d’un jour uno studio di questo strano trittico relazionale e come spesso fa nei suoi film sovrappone livelli relazionali e generazionali diversi che si vengono a condensare in un’unica immagine. Perché l’immagine per Garrel è sempre “verticale”, va in profondità e va a cogliere un oggetto assente, nel momento del suo ritrarsi: non esiste l’oggetto d’amore nella sua presenza; non esiste una storia d’amore al presente. Nasce da qui l’ossessione dei suoi film per Nico, per la Jean Seberg in Les hautes solitudes, per le comunità utopiche post-sessantottine nel momento del loro riflusso esistenziale: l’affetto fondamentale del cinema di Garrel è infatti quello della malinconia. E tuttavia non se ne compiace, e anzi negli ultimi tre film, che sono parte di una sorta di trilogia “freudiana”, secondo le parole del regista, l’approccio si fa più formale, lo sguardo più razionale, le problematiche più nitide. È stato Garrel stesso a dire che se ne La gelosia la protagonista era la nevrosi femminile, ne L’Ombre des femmes era la libido femminile mentre in L’Amant d’un jour è l’inconscio femminile.
In questo film allora l’oggetto nostalgico che rimane in filigrana nell’immagine non è nient’altro che la relazione tra il padre e una figlia: un “oggetto” perduto nel senso freudiano del termine, che cioè esiste solo nella sua forma perduta. Perché l’amore che si vive nelle proprie relazioni di coppia si sovrappone a un amore inconscio, in questo caso a quello impossibile tra una figlia e suo padre. Alla figlia che inizia a voler occupare la posizione dell’amante si accompagnerà Ariane che invece si accorgerà immediatamente dello sconvolgimento che l’arrivo di Jeanne produce all’interno dell’equilibrio erotico della sua coppia. Infatti nella prima scena in cui vediamo il padre fare l’amore con lei, la prima preoccupazione è che la figlia non senta: proprio perché è entrata letteralmente nel loro letto.
L’Amant d’un jour è allora un film su Jeanne e su come i percorsi di soggettivazione di una struttura inconsciamente incestuosa finiscano per governare le proprie relazioni sentimentali. Jeanne riuscirà a ritornare ad avere una relazione di coppia (con il ragazzo da cui viene lasciata) solo nel momento in cui liberandosi di Ariane andrà a occupare simbolicamente il posto dell’oggetto del desiderio del padre (in una bellissima e intensissima scena dove il padre l’accompagna a comprare i vestiti e la vede – anche se solo per un fugace momento – come una donna e non come una figlia). È solo lì che è possibile per lei diventare donna e scoprire finalmente che cosa sia il godimento del sesso: imparandolo da Ariane, che infatti occuperà quel ruolo solo fin tanto che le sarà utile.
L’Amant d’un jour, girato esattamente come La gelosia e L’Ombre des femmes con una durata di soli 75 minuti, in bianco e nero e in cinemascope, con sostanzialmente la stessa troupe e gli stessi sceneggiatori degli altri due film (l’unico cambiamento è la sostituzione di Willy Kurant con Renato Berta alla fotografia a causa dei sopraggiunti limiti d’età del primo) chiude così questo periodo che va dal 2010 a oggi e che verrà ricordato come uno dei più importanti e riusciti della carriera di Garrel, al quale seguirà – come annunciato dallo stesso regista durante il q&a alla proiezione stampa alla Quinzaine – un film a colori: cosa che spesso nella carriera del regista ha rappresentato un momento di discontinuità (fu così con Un été brûlant e J’entends plus la guitare).