Giuseppe Di Matteo fu strangolato e sciolto nell'acido dal clan dei fratelli Brusca, l'11 gennaio del 1996. Aveva quasi 15 anni, due dei quali passati sotto sequestro, perché la mafia la doveva far pagare al padre del ragazzo il fatto di essersi pentito, testimoniando per indagini non esattamente ancillari, come quella sulla strage di Capaci. È una storia vera, etichetta con cui spesso si fregiano in apertura i film hollywoodiani ma anche quelli che si trasmettono il pomeriggio ad uso massaie. È una storia talmente vera da straziare lo spettatore che la riconosca in Sicilian Ghost Story di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza – apertura della Semaine de la Critique cannense, dove già fu (forse un po' frettolosamente) glorificato il loro esordio, Salvo – rendendosi man mano conto di ripercorrerla; ma è uno strazio ai limiti del morale, perché si deve uscire indenni dalla narrazione di un'innamoramento adolescenziale, calato in una foresta di simboli, di allusioni rarefatte agli anni '90, di vivi che paion morti e morti che paion vivi.
La questione di fondo è: si può raccontare una vicenda come questa, dolorosa e orribile non solo per la famiglia, non solo per la Sicilia, ma per il Paese intero, coi toni del sogno e della favola nera che scelgono Fabio Grassadonia e Antonio Piazza? Il problema di forma, una volta imboccata quella strada, è fino a che punto sia legittimo giocare con la sintassi, con la dilatazione dei tempi, con gli andirivieni logici e cronologici, con i simboli ostentati e le inquadrature deliberatamente decentrate, sghembe o spianate dal grandangolo, con le cartoline patinate a fil di drone, con le soggettive sfuocate di cui il film è disseminato, che scopriamo essere lo sguardo del gufo, animale notturno par excellence e, mi ricorda un caro amico, correlativo dell'ambiguo rapporto tra superficie e contenuto in Twin Peaks "i gufi non sono quello che sembrano" (e gli anni del sequestro sono proprio quelli dell'onda lunga della serie lynchiana).
Viene da chiedersi anche quanto contino, nel risultato, gli apporti dei produttori, Francesca Cima, Nicola Giuliano, Carlotta Calori (e l'idea di cinema italiano "esportabile" che Indigo ha perseguito in questi anni, e penso anche al recente, e sempre siciliano L'attesa, di Piero Messina), e Massimo Cristaldi, che, sarà un caso, aveva già, nel 1992, prodotto La corsa dell'innocente di Carlei, altra storia di figli di mafiosi, zainetti, fantasmi e seconde vite; e quanto poi dipendano dalla produzione le scelte di un cast che fatica ad amalgamarsi, tra professionisti come Vincenzo Amato o la altrove bravissima Sabine Timoteo, inamidata madre svizzera, e gli esordienti Julia Jedlikowska e Gaetano Fernandez. E quanto, dal dialogo tra regia e produzione, dipendano i tre interminabili minuti (su una durata già importante) del lento spargimento nelle acque di un laghetto dei brandelli del corpo dell'innocente, decomposto dall'acido, tra i quali compare un grumo assai prossimo all'embrione, che la mdp lo isola segue nelle gore sempre più buie... «Those are pearls that were his eyes. Look!»: chissà se davvero il "paese guasto" ha bisogno di questo sogno a matrioska, di riconoscersi in questa "dimenstione fantastica", per fare i conti con le ferite del passato e con le malattie croniche del presente.