«Chi è il tuo migliore amico, papà?»
«Non lo so»
La stanza matrimoniale dei coniugi Murphy presenta un letto a baldacchino. Simile a quello della cameretta di L’esorcista (1973). Nel capolavoro di Friedkin equivaleva a un sepolcro nel quale Regan veniva legata e posseduta; in The Killing of a Sacred Deer è un oggetto d’arredamento che funge da altare su cui offrire di sé grazie artefatte. Forse non è un caso: il film di Yorgos Lanthimos è infatti un horror dove ad essere occupato da forze sconosciute non è il sentimento bensì il privato nelle sue dinamiche.
Non credo sia casuale neppure che dallo svelamento del piano del sedicenne Martin, cioè dall’inizio del conto alla rovescia per lo sbriciolamento della famiglia, a casa Murphy le cose non soltanto comincino a precipitare, ma anche – paradossalmente - a trovare una parvenza di “normalità”. Le voci si alzano, quando invece sono sempre state smorzate e monocordi; vola qualche schiaffo, laddove non si era mai vista una mano alzata; si ribaltano i cassetti, si prendono decisioni avventate, addirittura si piange. E su quel letto, teatro finora di anemia affettiva, per il quale un rapporto sessuale diventava una performance da sala operatoria, avviene qualcosa di inaudito: Anna, la moglie, abituata a donarsi al marito Steven con indifferenza cadaverica, stavolta è costretta ad avvicinarsi a lui con una certa tenerezza, abbandonandosi sul suo petto, al buio (e l’immobile superbia di Nicole Kidman è in questo senso perfetta: per lei il ruolo migliore da dieci anni). L’orrore, insomma, non è soltanto la chiave di volta per l’epifania della propria identità, ma anche l’uscita di sicurezza per l’estrema riconversione di una vita abitualmente adibita all’uniformità più indulgente.
Il diabolico dunque serve a Lanthimos quale specchio non tanto della crisi del modello famigliare, ma soprattutto come àncora di salvezza per una mononuclearità contraffatta. In L’esorcista l’ingresso del maligno portava il caos dove sembrava regnare la pace; qui, al contrario, Satana conviene perché detronizza l’omogeneità sociale. A costo di un sacrificio: e ciò è spaventoso, naturalmente mostruoso, eppure a suo modo coerente. A tal punto che poco prima dell’inaccettabile atto “rigenerativo”, il rapporto fra genitori e figli si riconcilia in una specie di armonia (certo cupa, cupissima): forse è troppo tardi per parlare di emozioni, tuttavia in un semplice dialogo fra padre e figlio, semplice e apparentemente scontato, della semplicità che rinuncia al raccapriccio di un segreto vergognoso (confessato in precedenza per i corridoi dell’ospedale), avviene uno scambio finalmente alla pari, con una domanda e una risposta dirette, inequivocabili, sul “migliore amico” di ciascuno.
Via finalmente dalla metafora. Per Martin è una vendetta simbolica, almeno fino al momento in cui Steven e Anna ne capiscono fino in fondo il significato rivoluzionario. Il cervo sacro viene ucciso. Non ne nasce forse un amore, però una consonanza sì, ecco, quella probabilmente sì.