Il genere viene chiamato in causa fin dal titolo. Come Caini, film rumeno presentato lo scorso anno sempre al Certain regard, l'idea è sempre ambientare una storia da vecchio west negli spazi selvaggi dell'Europa orientale. Giocare con le aspettative, con il paesaggio, con le situazioni. E soprattutto, giocare con l'idea di un mondo inesplorato, compreso nei confini dell'Europa ma fuori dal suo immaginario geografico; uno spazio di frontiera (qui fra la Bulgaria e la Grecia) depositario di un mistero legato alle sue zone di passaggio, ai suoi villaggi come avamposti della civiltà, alle sue caratteristiche per l'appunto "di genere" (natura, cavalli, fiumi).
Con il suo film, Valeska Grisebach costruisce un contesto perfetto per innescare un western europeo e contemporaneo, come se il racconto, prima di straniarsi da se stesso, mettesse in fila i pezzi necessari. Un gruppo di operai tedeschi in trasferta in una zona boscosa e semidisabitata della Bulgaria; un paese di proprietari terrieri e contadini fieri della propria terra e delle proprie regole; stranieri rozzi e strafottenti contro zotici minacciosi e rissosi; senso di superiorità occidentale da un parte e diffidenza millenaria dall'altra. Una situazione potenzialmente esplosiva. Un ennesimo tranquillo weekend di paura che costruisce ogni momento come il possibile, attesto inizio di un'esplosione inevitabile.
Eppure nulla, o quasi succede. O meglio, la tensione del genere, che per forza di cose spezza sempre il realismo della messinscena, resta sulla carta, soffoca nei pensieri e nelle emozioni controllate dei personaggi. Che sono figure narrative (il buono, il brutto, il cattivo, la ragazza, il potente, il ragazzo...), ma non smettono mai di essere prima di tutto persone, uomini e donne con un senso della misura che è la misura del vivere civile e comunitario, anche quando si è stranieri poco tollerati o padroni incontrastati del proprio mondo.
Nessuno parla bulgaro, fra i tedeschi in trasferta; pochissimi parlano (male) il tedesco, fra i bulgari del villaggio. Il ricordo della guerra nazista contro i greci è ancora vivo, i due mondi non sanno e non possono parlarsi. A parlare sono i corpi - corpi giganteschi, esibiti, tesi, sfatti - senza però che Western diventi un film teorico o tocchi le vette, poniamo, di Beau travail. Western resta sempre un film di persone, fatto delle possibili storie che ogni contesto geografico e sociale, se considerato come uno spazio unico, chiuso e per questo trasformato in una sorta di "palcoscenico", può suggerire e poi frustrare.
Il protagonista del film, un ex soldato tedesco che per soldi ha accettato il lavoro, si fa capire con la sua presenza, si esprime a gesti, a sorrisi, stabilisce un legame con gli uomini e le donne del villaggio sulla base di una comune appartenenza a un'umanità addolorata eppure sicura dei propri valori. La violenza è sempre dietro l'angolo, al di là di ogni possibile sbocco narrativo, così come la vendetta contro lo straniero, lo scontro fratricida fra connazionali o la faida fra potentati locali. La sceneggiatura accumula e scioglie, ripete e risolve, trovando una soluzione originale, sottile, ripetitiva ma inevitabile, al classico schema narrativo del cinema classico.
L'unico a fare le spese del clima di possibile odio è un cavallo bianco azzoppato in seguito a una caduta e abbattuto: ed è forse l'unica esplicita concessione simbolica di un film che gioca proprio a rendere visibili i propri meccanismi e poi a nasconderli, a scioglierli nella vastità dei legami personali. Soffocarli grazie alla semplice presenza in scena dei personaggi, che parlando, muovendosi, guardandosi, in una parola vivendo fanno dimenticare la loro funzionalità, il genere al quale dovrebbero sacrificare la loro credibilità.