Una giovane donna si sveglia in ospedale la mattina dopo aver partorito. Si alza dal letto, raggiunge il bagno e da qui, forzando una finestra, fugge via abbandonando il figlio appena nato. Si apre così, Ayka, l’ultimo film del kazako Sergey Dvortsevoy. Da quel momento la macchina del regista non si scollerà più di dosso alla protagonista – che è la Ayka del titolo – e lentamente tutto quello che vedremo ci aiuterà a capire il perché di un gesto tanto drammatico.
Ayka è kazaka ma vive a Mosca da clandestina, non ha i documenti in regola per lavorare, condivide con altri immigrati un lurido appartamento abusivo nella periferia della città, deve una grossa cifra di denaro a degli strozzini suoi connazionali, ma i pochi soldi che possiede le bastano a malapena per vivere… Quello che emerge dal film di Dvortsevoy è uno spaccato di miseria, indigenza e sfruttamento crudo e durissimo a cui è difficile rimanere indifferenti. Lo stile dardenniano del pedinamento inoltre, rende ancora più esplicita l’intenzione da parte del regista di imbastire un racconto realista, rigoroso tanto nella messa in scena quanto negli aspetti formali della costruzione filmica. In un film con dialoghi ridotti all’osso sono infatti le situazioni, i gesti e le azioni che i personaggi compiono a risultare determinanti.
L’innegabile abilità con cui Dvortsevoy filma la sua protagonista e l’asciuttezza attraverso la quale conduce la narrazione non sono però sufficienti per realizzare un’opera risolta. Ma nemmeno per convincerci che quella di Ayka sia una storia che deve essere davvero raccontata. È quasi impossibile infatti entrare in sintonia con la protagonista e non solo per la difficoltà di condividerne intenzioni ed emozioni, ma perché è proprio sul piano drammaturgico che il vagare disordinato e disperato della ragazza non arriva (letteralmente) da nessuna parte.
Il regista ci mostra una donna in balia di eventi che hanno il sopravvento su di lei, ma che a ben vedere sopraffanno anche la storia che la vede protagonista. Senza una meta, un’idea su cosa fare e dove andare – la sua sola missione è trovare i soldi da restituire agli strozzini, ma le uniche alternative (entrambe fallimentari) sono trovarsi un lavoro o farsi prestare la somma da qualcuno – Ayka si smarrisce, e il film con lei, in una strada senza uscita il cui finale, aperto, non giustifica una durata poco sotto le due ore.
Ma che il regista non avesse le idee molto chiare su cosa dire (perché forse troppo concentrato su come dirle), è evidente anche dal modo in cui cerca di introdurre metafore nel testo filmico senza la necessaria delicatezza: un’immagine che vale per tutte è quella di Ayka che trovato un lavoro temporaneo nello studio di un veterinario, osservando una cagnetta mentre allatta i suoi cuccioli, si stringe i seni gonfi di latte provando (crediamo) pentimento per il figlioletto abbandonato in ospedale… Non esattamente il “cinema del reale” che vorremmo vedere in Concorso al Festival di Cannes.