Due ragazzi seminudi, una scena porno en plein air, passano sul visore di una moviola, avanti, indietro, stop: le coordinate ridicole, spensierate e un po’ cialtrone, del blue movie che Lois (Kate Moran) sta montando sono già evidenti.
È l’estate del 1979: Lois è la montatrice dei film prodotti da Anne Parèze (Vanessa Paradis); ma è anche la sua amante, e si capirà presto che la storia pare arrivata al capolinea. I film che fanno si rivolgono a un pubblico di soli uomini, sono girati in fretta, su set “a conduzione familiare”, pagati relativamente bene, e hanno quasi tutti titoli ironicamente porno-poetici, come De sperme… et d’eau fraiche. Ma la “famiglia” ha una vita anche lontano dal set. Una notte, durante una festa in maschera, il più giovane, e si potrebbe dire angelico, degli attori di questa factory del porno, viene sedotto e accoltellato a morte, durante un rapporto sessuale, da un uomo dal volto coperto; un delitto che implica un sussulto ironico rispetto alle aspettative create dal titolo, evocando un’oscillazione, tra coeur e cul, cara ai surrealisti, che espressa in italiano suonerebbe ancora più efficace. È il primo degli omicidi ai danni dei collaboratori di Anne, ma non c’è da aspettare troppo, a un certo punto arriveranno anche le coltellate al cuore, quelle metaforiche e quelle fisiche.
Nessuno, niente è davvero straight, nel microcosmo delineato da Yann Gonzalez, tutto è queer. A eccezione della forma. Come e più del precedente Les rencontres d’après minuit (e ai tanti corti che Gonzales ha realizzato prima e dopo quello), infatti, Un couteau dans le coeur è estremamente attento alla cura formale. Un’attenzione che non implica però uno sguardo calligrafico o leccato – certo, la fotografia, in pellicola, di Simon Beaufils è, in più di un punto, un prodigio di rievocazione mimetica, dell’epoca e dei riferimenti visivi prediletti dall’autore –, ma, anche e soprattutto nell’essere kitsch, una visione affine, se non proprio conforme, a dei modelli precisi.
Affine alla forma, alla costruzione, di quelli che sono i capisaldi della sua adolescenza cinefila e un po’ nerd nella provincia francese; fedele a un entusiasmo bulimico per i film di genere degli anni ’60 e ’70 (italiani, ma non solo): c’è Mario, c’è Lamberto, c’è Dario, c’è Lucio, c’è Georges, c’è Jacques, c’è Brian. Ma lo scopo del prelievo dal cinema di questi autori non vuole limitarsi a indurre lo spettatore al riconoscimento catalogico dei singoli pezzi, delle sequenze citate, degli objets trouvés: nessuno darà un premio a chi avrà identificato e inventariato tutti i segmenti e i riflessi di Argento, Franju, Bava o De Palma che sono la struttura del film; né è il caso di giocarci a Jenga, per vedere se togli qui, togli là, la statica regge.
Quello di Un couteau dans le coeur è un cinema che chiede allo spettatore un patto diverso: quello di abbandonarsi dentro questa sua struttura/chimera, dentro i suoi toni progressivamente surreali e di fiaba nera, alle sonorità amniotiche dei sintetizzatori dreampop degli M83 – ovvero il gruppo del fratello di Gonzalez, Anthony, con il quale lo stesso Yann collabora –, di accettare una recitazione spesso volontariamente non naturalistica o esplicitamente fuori rigo, e percorrere il tracollo del risky business di Anne Parèze. Seguirla nell’indagine che la porta a scoprire, nel cuore della foresta, l’identità e il movente del killer, banalissima ma universalissima matrice di tanta parte dei problemi umani, ovvero la repressione, la castrazione; ma accompagnarla anche nella sfida sfacciata di mettere in scena, in chiave erotica, quello che le accade attorno. Eros che sbeffeggia per davvero Thanatos – ma questo non vuol dire che non ne abbia una paura fottuta –, in quell’ultimo tratto di stagione edonistica a cavallo tra gli anni ’70 e ’80, nel prequel dell’epidemia dell’AIDS, di cui, senza neanche troppi forse, questa serie di omicidi è un’anticipazione metaforica.
Certo, è un patto spettatoriale che, per parafrasare Matteo/Scamarcio in Euforia, «dipende tutto dall’interlocutore».