Una nuvola scolpita con l'accetta. Così sceglie di raccontare le prime fasi della guerra tra Russia e Ucraina Sergei Loznitsa nel suo quarto di film di finzione, Donbass.
Fin dal titolo non ci sono dubbi sull'oggetto dell'operazione del regista ucraino, che abbandona qui il suo sguardo esterno da documentarista (quello che resta a distanza e osserva i visitatori di Sachsenhausen in Austerliz o i partecipanti alle celebrazioni del giorno della vittoria in Victory Day) per ritornare completamente dentro il racconto.
Il film ha la struttura di una nuvola (di quelle disegnate dai bambini), gira e ritorna su se stesso, poi di nuovo, e ancora, talmente dentro a sé da usare spessissimo la falsa soggettiva. La posizione del regista è chiara ed estrema, non concede nulla alla sfumatura né alla problematicità. Questo non sarebbe un grande problema per un film epslicitamente ideologico - il problema piuttosto è la scelta del registro che, come già in A Gentle Creature, è quello di un grottesco troppo spesso ostentato e così greve da trascinare dietro (e in parte ipotecarla) la sua sempre più programmatica riflessione sulla storia e sulle modalità del suo racconto.
L’assunto è chiaro: la politica è la sua messa in scena in un paese dove non resta nulla se non la corruzione, il millantato credito, gli interessi di pochi e la manipolazione del reale. Un paese esploso ideologicamente, politicamente, fisicamente. Lo esplicitano le molte, improvvise, strabilianti scene di deflagrazione che trascinano tutto -finanche lo sguardo dello spettatore - nel nero assoluto.
Le finte interviste, le trasmissioni tv, i selfie, la teatralità grandguignolesca e urticante fanno il resto costruendo l’ossatura di un film che ha il merito di affondare il coltello nella piaga pressoché ignorata del paradossale conflitto non conflitto che continua in quell’angolo immenso e ultrapopolato (e abbandonato) di Ucraina. Ma anche un film che soffre il grande limite del suo suo stesso debordare.