Il Papa guarda in camera e parla: parla di povertà e ingiustizia sociale, di ecologia e immigrazione, di dolore (perché esiste?) e amore (la verità, la soluzione). Parla con parole di buonsenso, di quelle che in tempi come i nostri risultano quasi rivoluzionarie («non bisogna avere paura di questa parola», dice, è il messaggio stesso di Gesù Cristo ad essere rivoluzionario). Parla con la sincerità disarmante, il calore, la semplicità che tutti conosciamo, quella di un parroco più che di un pontefice.
La cosa più sorprendente del documentario che Wim Wenders ha dedicato a papa Francesco, è che il film è tutto qui. Ma ne vorresti anche di più. Vorresti, cioè, che il doc si limitasse davvero a quello strabiliante dialogo-monologo a tu per tu col pontefice (ci siamo noi e lui, senza mediazioni). Nelle parole che il Papa dice (non predica) allo spettatore, al mondo, consapevole di farlo, scendendo dal piedistallo in cui lo colloca il suo ruolo (tutto il suo pontificato è fatto di gesti che riportano il successore di Pietro sulla terra, fisicamente e simbolicamente), di usare uno strumento potente, e un regista ammirato e conosciuto, per veicolare il suo messaggio. Quale? Lo scandalo dell’ingiustizia sociale, la “globalizzazione dell’intolleranza” contro i migranti, la necessità di superare un sistema economico basato sullo sfruttamento, le colpe dell’umanità nei confronti della natura, la follia di una vita basata sulla velocità, il consumo, il profitto, la nostra incapacità di amare e condividere, di “perdere tempo” con i nostri figli, di aiutare chi ci sta intorno… Una rivoluzione, appunto. Quella di una nuova fratellanza universale. Quella proposta otto secoli fa da Francesco d’Assisi.
Il film, in effetti, parte da lì. Dalla voce di Wenders che evoca la rivoluzione francescana, la scelta della povertà, del sacrificio per gli ultimi, dell’amore e il rispetto per la natura (Wenders accompagna, commenta, chiosa le parole del Papa da osservatore interessato). In effetti, l’unica trovata wendersiana è quella di mettere in scena san Francesco, il “predecessore”, in immagini in bianco e nero, da archeologia del cinema (che non sono certo la parte migliore del film, anzi). Come dire: quello è il mito, questa è la sua incarnazione moderna. Papa Francesco vorrebbe riportare la Chiesa al Vangelo, lo dice spesso, lo ribadisce anche qui, con veemenza. Lo dice anche davanti alla Curia, mentre la macchina da presa alterna il suo duro intervento ai volti stanchi, perplessi, immobili dei vescovi.
Vale la pena ricordare che questo è un film su commissione. Wenders non si prende (quasi) nessuna libertà, se non quella di stare ad ascoltare il Papa, “un uomo di parola”, come recita il titolo: perché conosce il peso e il valore delle parole, ma soprattutto perché è una persona che fa ciò che dice, a partire dal bisogno di una nuova sobrietà e dalla necessità di (ri)partire dagli ultimi. E così lo vediamo nei luoghi più miseri del mondo, nei campi nomadi, tra i carcerati… Percorriamo il mondo con lui, in Papa-car, fendendo le folle che lo acclamano, emozionandoci anche un po’ per l’emozione che suscita nella gente che incontra, nella speranza che riesce a infondere a milioni di persone.
A volte capita di pensare: tutto qui? Un catalogo di buone intenzioni? C’era bisogno di Wim Wenders? Cinematograficamente parlando, forse no. Dal punto di vista della comunicazione, invece, funziona benissimo. E Wenders ha avuto l’intelligenza di capire la portata storica di questa possibilità che gli era stata offerta. Ha contribuito alla celebrazione di quello è che diventato un leader mondiale. Laico, verrebbe da dire, perché si parla ben poco di preghiera, religione, storia, teologia (alla fine dei tempi, dice, ci saranno sorprese, perché non conterà in cosa hai creduto, e se hai creduto). Mentre si evoca lungo tutto il film la spiritualità francescana, il tornare alla terra, alla semplicità, alla povertà, alla legge dell'amore (amare se stessi, gli altri, la natura). Fondata sulla rinuncia all'ego e all'individualismo, la più difficile, che richiede una lunga disciplina (spirituale) e una devozione totale.
Non c’è biografia, non ci sono “dietro le quinte”, non si celebra un uomo, ma le sue parole (rivoluzionarie). Agiografico? Sì, certamente, nel senso buono della parola. Esiste.