Concorso

La chimera di Alice Rohrwacher

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La chimera: “ognuno insegue la sua … senza mai riuscire ad afferrarla” recita la sinossi ufficiale del nuovo film di Alice Rohrwacher, implicando quindi principalmente il significato secondario della parola, quello di sogno irraggiungibile, utopia; ma Rohrwacher sa benissimo che una chimera è innanzitutto una creatura fantastica della mitologia antica, composta da parti di quattro bestie diverse, con quattro temperamenti o anime differenti. E nel suo film, nel suo cinema in generale, questo concetto di assemblato torna con insistenza. In un certo senso, anche lo stesso protagonista Arthur (Josh O’Connor), incarna in qualche modo la condizione della chimera, da inglese (o irlandese, comunque straniero, altro) in Italia, da archeologo di formazione che fa il tombarolo (che è quasi come dire da guardia che fa il ladro), da vivente che forse è già morto. 

Anni ’80. All’inizio vediamo Arthur, rilasciato dal carcere, viaggiare su un treno espresso, uno di quelli che odoravano di fumo e sudore, con le immancabili stampe di disegni di Leonardo: lineamenti nobili ma odore del carcere addosso, intorno a lui si fa il vuoto; sta ritornando nella sua cittadina sul Tirreno, dove ritrova la banda di tombaroli con cui aveva operato prima di finire in prigione. I banditi lo aspettano per il suo “dono”: come un rabdomante sa percepire i vuoti sottoterra, che coincidono con tombe a camera o altri spazi rimasti sepolti con i loro tesori. Ma lo aspetta anche Flora (Isabella Rossellini) la madre di Beniamina, la sua fidanzata sparita, che fa la maestra di canto e tiene in casa presso di sé la bella Italia (Carol Duarte), che a dispetto del nome è nata in Brasile, e a dispetto dell’aria dimessa nasconde un segreto. Sullo sfondo, compaiono e scompaiono un  numero non chiaro di figlie e nipoti di Flora, rosse di capelli, maligne, in trepida attesa di entrare in possesso della magione che pian piano cade a pezzi.

“Vorrei spiegarvi, oh Dio!/Qual è l'affanno mio;/ma mi condanna il fato/a piangere e tacer.” è l’aria di Mozart, che Flora vuole insegnare a Italia, un’aria che, in fondo, fa parte di una chimera, essendo nata come inserto per un’opera di un’altro compositore; ma certo vorrebbe riflettere il temperamento taciturno e introverso, gli affanni interiori, di Italia quanto di Arthur. D’altra parte tace la terra, che forse si è richiusa su Beniamina, per chi non sia in grado di riconoscerne i vuoti. ma questo non significa che una volta trovato quello che sta sotto, questo sia di chi l’ha trovato. Che poi, procedendo per accumulo anarcoide di riferimenti, o riflessi, Arthur è anche un po’ un Orfeo che cerca la propria Euridice/Beniamina di tomba in tomba; ma nel disfarsi delle maglie dell’abito di lei, il filo rosso che poi ricomparirà nella terra dà un coup de fil a Arianna nel labirinto di Cnosso.

Chimera è il film in-sé, non solo per il meccanismo del montaggio, o perché nel caso specifico sono stati usati tre formati differenti di pellicola, ma anche per come tende a includere le forme espressive più disparate, questa volta la formula del cantastorie, ma anche tutto l’apparato paratestuale, quello che non finisce sullo schermo ma che il film lo accompagna. Nella fattispecie, l’affiche ufficiale, che è una rielaborazione della carta dell’Appeso (con l’uomo penzolante… da un filo rosso), nei tarocchi “colui che guarda il mondo al contrario, guarda le cose da un'altra prospettiva cerca nuove strade”: se non fosse bastato il rovesciamento dell’inquadratura tutte le volte che Arthur esercita il proprio “dono” a favore di lestofanti di vario genere; e la questione delle prospettive tornerà, con grande ridondanza, nel finale condito con un Battiato dell’obbligo, Gli uccelli, su immagini di uccelli in volo: Cambiano le prospettive al mondo/Voli imprevedibili ed ascese velocissime/Traiettorie impercettibili/Codici di geometria esistenziale”. Ma quali delle nuove prospettive voglia scegliere, o perlomeno indicare, Rohrwacher con questo film non è chiaro, una volta che si è lasciato spegnere il calore della grana analogica e la festosità metastorica di un carnevale en travesti. Il suo stesso protagonista sembra voltare le spalle alla prospettiva di un’utopia politica dove il bene comune è gestito saggiamente dalle donne nella stazione abbandonata di cui Italia aveva domandato “di chi è ora questa?”, “di nessuno e di tutti”, “di nessuno o di tutti?”: e sì che nella prima tirata di Mélodie (Lou Roy Lecollinet), la ragazza francese che fa da tramite con il principale ricettatore, Spartaco ovvero Frida (Alba Rohrwacher), con una interpellazione diretta all’obiettivo, si ricorda la presunta struttura matriarcale della società etrusca (una teoria tardo-ottocentesca praticamente priva di riscontro) e soprattutto che in virtù di questo, sua nonna diceva che se gli Etruschi avessero avuto la meglio sui Romani l’Italia sarebbe stata meno vittima del machismo. Affermazioni che sembrano recuperate un tanto all’etto da una puntata di Harem mai girata.

Di nessuno o di tutti, zero o infinito, è  anche quello che si trova sottoterra. L’altra prospettiva rovesciata è appunto quella del mondo di sotto, la misteriosofia delle opere nascoste allo sguardo dei viventi contro la mistica (o mistificazione) del “tombarolo buono”, che emerge nella narrazione del cantastorie, che anche se “buono” (e però spieghiamoci bene da cosa dipenderebbe la qualifica), agisce per conto di altri, preleva i manufatti dal sottosuolo per interesse dei ricettatori, in base alla legge del mercato e in barba alle leggi dello stato: carabinieri imbecilli, ladruncoli geniali… Ma quel che sta là sotto è di tutti (di tutti noi italiani, ma, in generale dell’umanità), non di nessuno, e francamente si fatica a riderci sopra con tutta questa leggerezza; e non basta basta la gag della testa mancante alla scultura portata clandestinamente in Svizzera, al posto della quale per un attimo si sostituisce il volto di Frida (un’altra telefonatissima chimera) a redimere la banda del buco.

Ma, comunque, c’è un momento che stride anche accettando le licenze e patenti di realismo magico di cui il cinema di Rohrwacher è intriso e che hanno fatto la sua fortuna (giusto per non definirlo anti-realismo), e anche accettando la mitologia del buon ladruncolo. È lì, a pochi minuti dal finale del film: raccolto da una nuova banda di tombaroli, che questa volta sono cattivi solo perché non c’è il tempo di empatizzare con loro, Arthur viene condotto a sondare i terreni accanto a un mostro di cemento armato con i tondini d’acciaio a vista, un cantiere abbandonato: è un momento implausibile perché se ci fosse stata una necropoli, coi suoi vuoti occultati, sarebbe emersa all’atto degli scavi per la costruzione delle fondamenta del colosso moderno. Ma quel momento serve a tenere insieme più elementi, a inquadrare, tra il cemento e il tondino, gli stormi che si avvicinano, quelli che per gli aruspici etruschi, consultati anche dai romani, erano i segni di un destino da decifrare; mentre quel cemento era, per Pasolini, il segno icastico, in atto, di una contemporaneità irreversibile.

Ecco, gli uccelli nel cielo, uccellacci, uccellini, la ridondanza che già dicevamo della canzone di Battiato: la vera chimera è il dispositivo stesso messo in piedi da Rohrwacher, stipato dei fantasmi di Pasolini, di un certo Olmi, di Sergio Citti, del cinema delle origini e del montaggio sovietico, un immaginario impregnato da fantasmi che sembrano più difficili da esorcizzare di quanto non si vorrebbe, intasato di riferimenti evidenti, se non ostentati, come sono intasate le tombe stracolme di oggetti di epoche e tipologie differenti, da cui i tombaroli di Arthur estraggono i pezzi di corredi funebri (ora immacolati ora vistosamente passati già dalle mani di un restauratore, ma questi sono dettagli).

Rohrwacher, e con lei Pietro Marcello e Carmela Covino sembrano in fondo voler dire di essere loro stessi i tombaroli del cinema, di scavare e prelevare i corredi, le eredità dei grandi maestri e di farci nuovo cinema, costruirci nuovi discorsi, con la libertà anarcoide dei tombaroli della bassa etruria e senza la rigidità dell’archeologia e della filologia. Col rischio, per non dire la certezza, di finire a far la parte dei rigattieri.