Concorso

O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho

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Kleber Mendonça Filho dice di aver iniziato a pensare alla sceneggiatura di O Agente Secreto durante il montaggio di Retratos fantasmas e che più lavorava a uno, più finiva per trovare l’altro. E in effetti i due film sono molto imparentati l’uno con l’altro, e non soltanto perché il cinema del regista di Recife ha da sempre una struttura autoreferenziale ed è pieno di rimandi interni, quanto perché a ritornare sono i temi che gli sono sempre stati cari: la memoria, gli intrecci tra la storia collettiva e quella personale, e naturalmente il ruolo dell’immagine e del cinema.

Apparentemente, O agente secreto, dovrebbe avere la struttura di una spy story, e così pare quanto meno per tutta la prima parte del film incentrata sul più classico dei McGuffin: il ritrovamento di un oggetto enigmatico fatto per mettere in moto l’azione. In questo caso si tratta di una gamba pelosa rivenuta nel ventre di uno squalo all’Istituto Oceanografico di Recife (scopriremo poi che si tratta di una leggenda metropolitana, o comunque non verremo mai a sapere davvero che storia c’era dietro alla gamba).

Il protagonista Marcelo è un ingegnere che torna a Recife per ricongiungersi con il figlio durante i gironi del carnevale del 1977 (ci saranno quasi cento morti, una cosa che Mendonça Filho ci dice essere normale per quegli anni). In realtà attorno al protagonista, c’è una comunità di “rifugiati”, che si lascia intendere essere un gruppo di militanti comunisti – messi fuorilegge, insieme ai sindacati, durante la ventennale dittatura militare – che agisce in clandestinità sfruttando una fitta rete di solidarietà informale (meravigliosamente rappresentata nel film).

Ma gli intenti di Mendonça Filho vanno ben al di là del pur efficace period piece. Già alla fine del primo capitolo veniamo ripiombati senza preavviso in una stanza di un archivio a San Paolo, nel Brasile di oggi. Due giovani studentesse ascoltano le cassette che Marcelo e i suoi compagni hanno registrato durante quell’anno, mentre erano ricercati da un gruppo di gangster e dalla polizia di regime. Il punto di vista, da interno e in presa diretta sul presente, si sposta verso quello di chi cerca di ricostruire il passato attraverso la lettura dei suoi frammenti. E in effetti il mondo del regista brasiliano è da sempre quello di chi si trova sullo soglia di un passaggio storico, da cui il passato verrà cancellato ma che per un momento riesce ancora a essere intellegibile (come il mondo del cinema nell’epoca della sua scomparsa a opera del digitale, e anche in questo film vediamo i cinema di Recife di cui abbiamo visto la sparizione in Retratos fantasmas).

E in effetti la risoluzione della spy story che vede coinvolto Marcelo – cioè la conclusione dell’intreccio del film – non ci verrà mai mostrata “al presente”, ma come “passato” in forma di documento rinvenuto nel futuro. E ci verrà mostrata dal punto di vista di una persona – una giovane studentessa brasiliana di oggi – che non era coinvolta negli eventi ma che da questi eventi si sente per qualche imperscrutabile ragione interrogata. C’è in effetti nell’incontro con cui si chiude il film tra l’archivista ventenne di San Paolo e il figlio di Marcelo (che invece della storia del padre non sa quasi nulla) qualcosa di una chiamata etica. Come a dire che il problema del passato non è tanto la sua sparizione (che è inevitabile) quanto quello di saperlo interrogare: cioè di mettersi nella posizione di chi quelle tracce e quella distanza la sa abitare. Che vuole dire naturalmente e soprattutto saper adottare una certa tipologia di sguardo.

Normalmente al cinema noi vediamo il passato nella forma di un presente ricostruito: cioè coltiviamo l’illusione di essere dentro al passato che stiamo vedendo come se fosse oggi. In definitiva al cinema noi vediamo il passato nella forma del presente: cioè non vediamo mai il passato in quanto passato. L’idea del cinema di Mendonça Filho è invece quello di non tradurre tutto al presente, quanto di vedere il passato mantenendo la sua distanza, cioè preservando la sua radicale inappropriabilità. Da cui deriva la proverbiale aura nostalgica e malinconica di molti suoi film.

È per questo che O Agente Secreto gioca solo in superficie con la struttura del dramma di ricostruzione storica. O meglio, gioca con la nostra abitudine di stare dentro alla ricostruzione presente del passato, per poi togliercela proprio sul più bello (cioè nel momento in cui vorremmo vedere come finisce la vicenda di Marcelo). D’altra parte lo spettro che si aggira nell’oggi è quello con cui si chiude il film: un moderno centro per donatori di sangue che è stato costruito laddove prima giaceva un cinema. Come per dire, che se vogliamo resistere a questa forma di amnesia generalizzata, che vuole schiacciare tutto sul presente, il primo antidoto è ancora quello del cinema: cioè di quella pratica di chi questa tracce le sa riconoscere. Che in definitiva non vuol dire nient’altro che saperle guardare.