Concorso

Sirât di Oliver Laxe

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Compiuto un classico percorso del regista di Cannes, con il primo film, il documentario Todos vós sodes capitáns (2010), presentato alla Quinzaine des réalisateurs e i successivi Mimosas (2016) e O que arde (2019) rispettivamente alla Semaine de la critique e al Certain regard, il regista e attore franco-spagnolo Oliver Laxe arriva ora in concorso con Sirât, prodotto dai fratelli Almodóvar. Per chi non lo conosce si tratta di una scoperta, o di uno choc, mentre per chi in passato ha frequentato il suo cinema avventuroso e contemplativo si tratta di una conferma. Di luoghi prima di tutto (come l’Atlante marocchino già protagonista di Mimosas), ma anche di temi come il viaggio, la ricerca interiore nello spazio fisico, la tensione spirituale e simbolica che si scontra con una propensione naturale a un realismo estremo, quasi spietato nella sua durezza.

Sirât, che prende il nome dal ponte sospeso sopra l’inferno che secondo i musulmani separa i credenti dai non credenti (la didascalia iniziale cita le parole del profeta Maometto: «sottile come un capello e affilato come una spada»), racconta del percorso nel deserto compiuto da alcuni frequentatori di rave party che, a bordo di due giganteschi camion adibiti a case viaggianti, devono spostarsi dal Marocco alla Mauritania, seguiti da un padre di famiglia spagnolo (Sergi Lopéz) che insieme al figlio è in cerca della figlia ventenne scomparsa. Dentro una cornice narrativa che è puro pretesto narrativo, Laxe allestisce una discesa verso sud mentre il mondo è sull’orlo della terza guerra mondiale, come si evince dalle notizie della radio, dall’arrivo dell’esercito marocchino a interrompere il lunghissimo rave su cui il film si apre e nel resto della vicenda dalla visione di convogli militari in marcia, di campi di battaglia abbandonati e zone minate.

Inizialmente parte di una massa indistinta di europei bianchi che come colonizzatori prendono possesso di uno spazio nel deserto africano per allestire il loro mondo fuori dal mondo (cos’altro non è un rave, in fondo, se non l’occupazione di uno spazio vergine, con le sue gigantesche casse, la musica a palla, le sue danze infinte, il suo sballo continuo), i protagonisti del viaggio (due donne e tre uomini, di cui due menomati fisicamente, di nazionalità spagnola, francese e italiana, più il padre e il figlio che si uniscono a forza alla loro comunità), diventano dei transfughi, anime morte (o meglio, non ancora condannate) dirette verso il nulla.

Se in Sirât il côté politico è forzato, quello simbolico è altrettanto opaco, schiacciato dalla potenza visiva di sequenze nel deserto immerse in atmosfere ipnagogiche, come un sogno allucinato che non ha nulla di allucinatorio a cui aggrapparsi, ma solo la concretezza spaventosa della strada, delle pietre, della sabbia, del vento. Non c’è nulla da capire, del resto, come nella musica dei rave: non va capita o ascoltata ma solo ballata, dice una delle viaggiatrici al padre in cerca della figlia. La semplice presenza di corpi nello spazio, e a seguire l’esperienza extracorporea dato dagli stupefacenti, costruisce l’essenza del rave. Laxe lo filma senza pregiudizi o condanne morali, pur facendo dei suoi personaggi delle semplici pedine che si spostano senza ragione.

Alla confluenza tra Herzog, Serra, Van Sant e magari anche Mad Max: Fury Road (e volendo riderci su, pure Marrakech Express, come se ne fosse una versione intellettualizzata), Laxe trova una sua via a un cinema di perdizione, sfrangiato e avventuroso per quanto non puro (perché sempre sospeso su una tensione creata in fondo solo dalla musica), che nella seconda arte scivola in una dimensione grottesca, se non addirittura surreale. Il punto di svolta è la morte di uno dei protagonisti in una scena scioccante e spettatorialmente inaccettabile (e proprio per questo notevole), oltre la quale niente può e deve avere senso. Da lì in poi, per i sopravvissuti di Sirat, diretti verso un nuovo mondo alla fine del mondo, costretti a pesare ogni passo come blade runners, il percorso è opposto ai migranti, non più da nord verso sud, ma al contrario, dentro il cuore dell’Africa da cui tutti proveniamo. Facile, troppo facile, ma d’innegabile effetto.