Tratto da un racconto di Georgy Demidov – fisico russo diventato scrittore dopo aver passato quattordici anni in un gulag nel periodo delle grandi purghe – Two Prosecutors è senza dubbio il film di finzione di Loznitsa più risolto e rigoroso di sempre.
Ambientato nell’URSS del 1937, al culmine del terrore staliniano, il film racconta di Kornyev, giovane procuratore di Brjansk fresco di nomina il quale, dopo che il suo ufficio riceve misteriosamente un biglietto scritto col sangue da un prigioniero del carcere locale che chiede di parlare con un avvocato, viene incaricato di occuparsi del caso. Dopo una lunga attesa e infiniti tentativi di depistaggio da parte degli organi della prigione, alla fine Kornyev riesce a incontrare il detenuto: un anziano bolscevico accusato di trockismo e cospirazione e condannato a morte. L’uomo è persuaso che il suo arresto sia frutto di un complotto e racconta all’avvocato che gli apparati di controllo, come l’NKVD (la polizia segreta antenata del KGB), sono infiltrati da nemici del popolo. A suo avviso, l’unica possibilità di ottenere giustizia è fare appello direttamente a Stalin o qualcuno del suo entourage, certo che, se questi ultimi fossero a conoscenza delle condizioni reali nelle prigioni sovietiche, non ne tollererebbero l’esistenza. Convinto di trovarsi di fronte a un caso di persecuzione politica, Kornyev decide di recarsi a Mosca con l’intento di ottenere udienza da qualcuno ai vertici del potere. Contro ogni aspettativa, riesce a incontrare addirittura il procuratore generale Andrej Vyšinskij – figura storica realmente esistita, noto per aver rappresentato l’accusa nei principali processi politici durante le grandi purghe. Vyšinskij lo invita a tornare a Brjansk, assicurandogli la sua protezione, affinché raccolga e presenti prove della corruzione all’interno dell’NKVD. Tuttavia, il rientro a casa per Kornyev sarà molto diverso da come se l’aspettava.
Come sempre, Loznitsa – che faccia documentari o fiction – nei suoi film costruisce un universo intricato, evitando qualsiasi giudizio esplicito e mantenendo uno sguardo apparentemente distaccato, caricando però l’opera di simboli complessi e stratificati, che chiede allo spettatore di cogliere nelle pieghe del racconto. Atteggiamento che qui si percepisce già dal titolo: i due procuratori – Kornyev e Vyšinskij – incarnano molto più del semplice incarico che svolgono: diventano simboli di due volti opposti dell’Unione Sovietica post-rivoluzionaria, ma anche di due visioni del mondo, due modalità di esercitare il potere, due sistemi di pensiero e due inclinazioni profonde dell’essere umano. Attraverso loro si chiarisce non solo l’atmosfera del film, ma anche il significato più ampio di un’intera epoca storica.
Kornyev sembra un personaggio da Hollywood classica – ricorda il Mr. Smith di Frank Capra – la cui purezza e ingenuità però non sono ciò che gli permette di smascherare la corruzione del potere, ma la sua condanna. Nell’URSS di Stalin i Kornyev erano tantissimi: in molti credevano sinceramente nel socialismo, nel proprio paese e nel proprio leader, percependo lo stato di terrore non come una manifestazione del potere, ma come una sua emanazione. Il regista ci racconta il momento in cui l’Unione Sovietica perde la propria ingenuità e in cui la tragedia si storicizza, ma evidenzia anche come, all’interno di un regime totalitario, gli anticorpi – i meccanismi di resistenza – siano radicati nella stessa struttura dello Stato e non provengano dall’esterno. E come, inevitabilmente, prima o poi questi anticorpi debbano emergere.
In questo senso la rappresentazione del potere raggiunge un’efficacia straordinaria: Loznitsa non solo riesce a catturare perfettamente lo spirito e l’atmosfera di un’epoca attraverso una messa in scena essenziale – il film si svolge quasi interamente in spazi chiusi come il carcere, il palazzo di giustizia e lo scompartimento di un treno – ma utilizza anche campi fissi che riflettono la rigidità e l’immobilismo della struttura statale. Di un potere cieco e kafkiano cioè che si manifesta attraverso una sopraffazione burocratica che gira a vuoto, come è evidenziato dal personaggio che non riesce a uscire dal palazzo di giustizia o dal burocrate che si mostra cortese con Kornyev senza conoscerlo davvero. Si crea così l’illusione della giustizia dentro un mondo in cui tutti sono schiacciati dal potere. Emblematica in questo senso è la prima inquadratura del film: un campo lungo nel cortile della prigione mostra i lavori di ristrutturazione della facciata, con detenuti impegnati sulle impalcature e secondini che li sorvegliano. Si percepiscono alcune voci in lontananza, ma non si capisce chi stia parlando — se i prigionieri o le guardie — come se tra loro non esistesse alcuna differenza.
Ma Two Prosecutors è anche, inevitabilmente, una potente metafora del presente. Come in tutti i film a sfondo storico di Loznitsa, il riflesso sulla contemporaneità è chiaro e inquietante. La somiglianza tra la Russia stalinista e quella putiniana non solo è evidente ma riguarda nello specifico il funzionamento dello Stato. Come se le modalità di amministrazione del potere e il modo in cui vengono esercitate appartengano a una forma culturale radicata che va al di là delle ideologie politiche e mostrino una sorta di destino ineluttabile della cultura russa. Non è un caso in questo senso che i personaggi, come ha detto Loznista stesso, sembrino usciti dalla penna di Gogol’ e la loro sorte tragica sia allo stesso tempo amaramente farsesca. E attraverso il film, il regista ucraino ci spinge a riflettere su come queste dinamiche siano ancora vive oggi e come, in un contesto segnato dalla guerra, diventino ancora più crude. La violenza del potere, la repressione sistematica e la distorsione della giustizia, non sono dunque residui di un’epoca lontana, ma strumenti ancora perfettamente funzionanti nei regimi autoritari contemporanei che trovano piena espressione nella brutalità della guerra.