Avevamo concluso il precedente viaggio nel cinema argentino dedicato al fútbol nel 1961, con un singolare film fantastico di René Mugica. Lo riprendiamo con un salto nel 1975, con un film in cui, per la verità, di calcio negli stadi non se ne vede proprio (se ne sente solo parlare in qualche momento). È però un film su un personaggio reale, una nota tifosa del Boca Juniors (la vediamo spesso con la maglia della squadra), detta “la Raulito”.
Il film, diretto da Lautaro Murúa, si intitola proprio La Raulito e racconta (con accenti piuttosto convenzionali e anche “di genere” – le ombre delle guardie carcerarie coi manganelli, ecc. – ma anche con un’interpretazione intensa della protagonista Marilina Ross) la sua adolescenza, passata tra la strada, il riformatorio e l’ospedale psichiatrico.
Il calcio rimane sullo sfondo, solo accennato, ma emerge comunque – nell’inquadratura in cui la protagonista palleggia, sola, in mezzo al campo o, nel finale, in cui ruba un pallone dalla vetrina di un negozio e lo porta con sé sulla spiaggia, meta della sua fuga, e lo lancia in aria – come anelito di libertà in una vita per il resto dominata dai limiti e dalle costrizioni che le autorità le pongono continuamente, con violenza o con paternalismo.
Si direbbe che abbia quasi un valore emblematico il fatto che un film in cui il calcio – sullo sfondo, ma comunque ben presente nel suo significato (poiché il personaggio ritratto è ben conosciuto dal pubblico) – diventa simbolo di libertà contro violenza e repressione esca nel 1975, ossia un anno prima del golpe del generale Videla, il cui regime utilizzerà invece la passione per il calcio come strumento di distrazione per consolidare il proprio potere autoritario.
I mondiali del 1978, che si svolgono in Argentina, proprio negli anni in cui questo paese è sotto il peso di una dittatura repressiva, sono sintomatici di questa strategia. Senza che l’ambiente internazionale del calcio se ne preoccupi più di tanto, il regime argentino utilizza l’evento per accreditarsi, all’interno e all’esterno del paese. E, poco dopo la vittoria, celebrerà l’avvenimento con un film intitolato La fiesta de todos (1979). Diretto da Sergio Renán, lo si potrebbe quasi definire – con tutte le differenze del caso, è ovvio – l’Olympia del regime di Videla.
Non che abbia le qualità formali del film della Riefenstahl e nemmeno che vi aspiri. Cinematograficamente, è anzi un film scialbo, assolutamente irrilevante. Si limita a ripercorrere le fasi salienti del campionato, con spezzoni dalle partite principali, alternandole con piccole, insignificanti, scenette familiari di alleggerimento (piccoli battibecchi intorno al televisore durante le partite: gli uomini che non vogliono essere disturbati dalle donne, il nonno di origine italiane che tifa per gli azzurri, ecc.) e con un commento che sottolinea gli aspetti patriottici, la riuscita dell’organizzazione come smentita dei disfattisti e degli scettici e come dimostrazione al mondo delle qualità dell’Argentina, la vittoria calcistica come momento di unità di tutto il paese contro i tentativi di dividerlo.
Rivisto oggi, appare dunque come un documento rivelatore di un’epoca e della strategia di un regime che cerca di nascondere con la spensieratezza e con la passione per lo sport la violenza e la repressione. Che il popolo si occupi del calcio e della famiglia: allo Stato e alla politica ci pensa la Junta di Videla (che, significativamente, appare all’inizio del film). Si potrebbe riassumere così il messaggio de La fiesta de todos.
Questa doppia realtà dell’Argentina nel ’78 (la festa e la repressione) saranno indagate in un documentario televisivo di trent’anni dopo, Mundial 78. La historia paralela (2008), che dà voce a chi, in quegli anni, voce non aveva, ossia i parenti dei desaparecidos, e che riprende, ri-contestualizzandoli, alcuni dei filmati de La fiesta de todos – come alcune dichiarazioni del selezionatore dell’Argentina César Luis Menotti. Il documentario esprime anche qualche dubbio, ovviamente assente nel film di Renán, intorno alla limpidezza del 6-0 rifilato al Perù che permise all’Argentina di arrivare in finale.
I possibili utilizzi a fini politici del calcio sono uno dei motivi ricorrenti del documentario Futból argentino (1990) di Victor Doninzon, film che alterna i momenti enfatici e celebrativi (i lunghi elenchi di campioni, l’esultanza per i gol nel finale), con quelli più problematici, in cui viene, ad esempio, messo in luce il ruolo che nel regime peronista ebbe la promozione dello sport o in cui si sottolineano i vari tentativi di utilizzare il calcio da parte dei governi che si sono succeduti, più o meno pacificamente, nella storia argentina, sino al Mondiale del ’78.
Il film di Doninzon è, complessivamente, piuttosto convenzionale: strutturato in ordine cronologico, si caratterizza, per esempio, per accostamenti immagini-suono quasi “obbligati” (i collage di azioni spettacolari in b/n accompagnati da tanghi d’epoca). È però un documentario di buona qualità informativa, abile nel dosare l’effetto nostalgia suscitato dai vecchi filmati e sufficientemente attento da non dimenticare i retroscena dello spettacolo calcistico.
L’ultimo titolo che vogliamo segnalare è un film che prende spunto dall’idolatria per Diego Armando Maradona (tema al centro anche del documentario Amando a Maradona, 2005, di Javier Vázquez). Si tratta del bel road movie El camino de San Diego (2006) di Carlos Sorín. Quando, nell’aprile 2004, il grande campione venne ricoverato per una crisi cardiaca, numerosi argentini sostennero lunghi viaggi per arrivare a Buenos Aires e stargli vicino, per pregare e incitare la sua guarigione.
Il protagonista del film di Sorín, uno dei nomi più rappresentativi del cinema argentino degli ultimi decenni (e uno dei pochi i cui film sono stati distribuiti nel nostro paese), è per l’appunto un fanatico di Maradona (sempre vestito con la maglia dell’Argentina, ha un 10 tatuato sulla schiena). Nella foresta trova un tronco d’albero che sembra riprodurre l’immagine del “pibe de oro” con le braccia levate al cielo: per sostenere il suo idolo intraprende così il lungo viaggio per portarglielo in omaggio.
Il film inizia come un finto documentario (le interviste frontali) e, via via, acquista toni sempre più fiabeschi (la foresta è popolata di farfalle svolazzanti e teneri animaletti) venati da una sorridente malinconia. Il viaggio – tema che nel cinema di Sorín è ricorrente – diventa l’occasione per incontri con personaggi singolari e pittoreschi. Il timido protagonista mantiene la sua speranza di incontrare Maradona e di contribuire alla sua guarigione, ma i veri miracoli che avvengono sono questi brevi incontri con persone con le quali condividere un tratto della propria esistenza.