Presentato all’interno della cornice del Far East Film Festival ma nella costola “minore” del Teatro Nuovo Giovanni da Udine, ovvero il Visionario, Fukushima: A Nuclear Story è un documentario tutto italiano (ricordiamo che la rassegna friulana si distingue per riuscire a portare in Italia ogni anno opere provenienti esclusivamente dall’intera Asia) che con l’Oriente ha comunque molto da spartire. Perché il lavoro firmato da Matteo Gagliardi è un’indagine incentrata sulla tragedia della centrale nucleare nipponica e sulle conseguenze che essa ha suscitato nell’area geografica interessata.
Avvalendosi di un ingente e raffinato lavoro di ricerca (la produzione del film è durata circa quattro anni), l’opera è una ricostruzione giornalistica schematica e lineare, mirata a divulgare al maggior numero di spettatori le cause dell’incidente, le soluzioni che preventivamente avrebbero potuto evitare il disastro e le conseguenze sociali da esso apportate. Senza mai dare nulla per scontato e cercando di rendere comprensibili i concetti scientifici più delicati e complessi, Gagliardi ha come unico obiettivo quello di accompagnare il pubblico passo dopo passo in ogni cavillo descritto.
Per questo motivo il film veste i classici panni di un documentario d’inchiesta televisivo, senza privarsi della voce di commento (nella versione internazionale prestata da Willem Dafoe) o di alcune grafiche in animazione mirate a ricostruire modellini della centrale e riproporre i dettagli più tecnici legati al funzionamento delle macchine in questione. Così, in un periodo storico in cui il cinema del reale sta trovando una linfa propulsiva nuova e sempre crescente (soprattutto in Italia), Fukushima: A Nuclear Story sembra compiere un passo indietro notevole e percepibile, ma sicuramente necessario e inevitabile per veicolare in maniera fluida e comprensibile quanto ricavato dalle fasi di ricerca.
Probabilmente lo spazio per poter affrontare un discorso sociale o di denuncia slegato dai tecnicismi relativi alla tragedia si sarebbe potuto ricavare approfondendo le parentesi più scottanti qui solo abbozzate come l’impossibilità per i giornalisti di avvicinarsi al sito nucleare o le ferite psicologiche covate da un popolo straziato moralmente, prima ancora che fisicamente. Tuttavia la forza divulgativa e la linearità ottenuta rendono il film un documentario solido e necessario, capace di fare ordine là dove il caos, da troppo tempo, ha avuto la meglio.