Dall’alto del campanile della Basilica di Sant’Ambrogio di Milano la vita appare nella sua quieta normalità. Antonio De Biase punta la macchina da presa, filma, osserva, scova, monta, cerca un ritmo, lo trova in quello immediato delle stagioni. Scene di vita nei cortili, nelle case, all’imbrunire e non; orari di lavoro, di gioco, noia, quotidianità; giorni di sole, di pioggia, anche di neve. Bambini, adulti, operai, fedeli, passanti, uomini e donne.
Il sogno da realizzare è quello pittorico di cogliere anche con la macchina da presa l’essenza delle cose, senza separare la sensazione dal pensiero, il caos dall’ordine. «La materia che si sta dando una forma», come scriveva Merleau-Ponty a proposito della pittura di Cezanne, che in maniera nemmeno troppo nascosta è il modello principale (al di là di riferimenti più o meno consapevoli a film come Tishe! di Viktor Kossakovsky o Counting di Jem Cohen) di questo cinema che il reale lo vuole prima catturare, poi modellare (con il gioco dei punti di vista e soprattutto con la post-produzione in questo caso sonora) e infine ridefinire.
La fissità della macchina da presa, che modifica il punto d’interesse ma, salvo rare eccezioni in cui coglie l’orizzonte lontano delle montagne, non l'altezza e l’asse di osservazione, cerca di rendere l’oggettività di uno sguardo capace di cogliere sia l’apparenza delle cose sia loro maniera fissa di apparire, in un equilibrio ideale tra vividezza e fissità, natura viva e natura morta, che per il cinema è un obiettivo e forse un’utopia.
Ciò che riesce a De Sancto Ambrosio, grazie alla sua struttura episodica e alla sua elementarità narrativa, è il mosaico di tranche de vie, il racconto minimalista di un piccolo mondo moderno: alcuni bimbi che giocano a pallone, un uomo che piange, un padre che prende amorevolmente per mano la sua bambina, una donna che stira, un muratore che fa calare un telaio da un appartamento in ristrutturazione…. Ciò che risulta invece più difficoltoso è proprio il desiderio d’astrazione dei singoli episodi, che senza essere filtrati dalla presenza dichiarata del regista – come invece faceva Jem Cohen con il suo diario di memorie e bozzetti – sono espressione di un’estraneità che dovrebbe dare conto di un’esperienza sempre nuova, sempre ricominciata. Ma la macchina da presa non è un pennello, non può lavorare sulla giustapposizione e l’accostamento dei colori; e l’inquadratura non è una tela, che blocca il momento e lo approfondisce nella sua totalità. E proprio nella tensione creata dal montaggio le situazioni restano come bloccate tra l’istinto narrativo e quello descrittivo, quando non contemplativo.
Lo sguardo di De Biase ha insomma il sogno di affiancare uno spirito romanzesco a uno lirico, il ritratto d’ambiente all’essenzialità che di ogni luogo cattura l’unicità, l’essenza che dimora in nessun luogo. E resta a metà, o forse a mezza altezza, al pari di un campanile che veglia antico, muto e dolce sulle teste degli abitanti di una città.