Un ritratto, dunque. Lo annuncia il titolo, fornendoci l’indicazione sull’identità del soggetto, e le prime inquadrature del film lo confermano disponendo gli elementi che ne determineranno l’impianto narrativo/rappresentativo: il padrone di casa cammina verso di noi, apre la porta e ci accoglie in quello che fino alla penultima inquadratura sarà lo spazio, l’ambiente destinato insieme a lui, con uguale importanza, a rivestire il ruolo di protagonista in questo progetto di messa a fuoco di un’identità tanto più incontornabile quanto più disponibile al confronto con l’obbiettivo e alla sincerità della narrazione .
Un’ora alla settimana nell’arco di un anno per arrivare a mostrare i dettagli di un segreto in piena luce. Il genere del ritratto, d’altra parte, si contraddistingue proprio per questo: ciò che il soggetto mostra di sé è anche ciò che non si lascia vedere da chi lo guarda nella realtà e che prende corpo invece proprio nel momento in cui la realtà si trasforma in inquadratura; il tempo della vita in tempo della visione; l’espressione “autentica” in indizio o in sintomo. Questa metamorfosi avviene contro ogni aspettativa, si impone come processo e ri-velazione agli occhi di chi ne è protagonista così come a quelli di chi vi assiste – spesso costretto a rivedere passo dopo passo le aspettative iniziali rispetto all’argomento – e, non di rado a quelli di chi, con gli strumenti espressivi prescelti e i relativi codici, porta a termine e firma l’operazione in atto.
Una cucina, un tinello, un fazzoletto di verde, dove però hanno potuto crescere anche degli alberi («a differenza di quello del vicino»): l’orizzonte degli eventi è circoscritto e l’inquadratura ce lo rende a tratti angusto, ad esempio quando la parete chiude lo spazio subito alle spalle di Pierino esaltando la bidimensionalità della composizione che ha nella pagina di calendario il suo centro focale. Il volto del protagonista, spesso in primo piano o comunque in piano ravvicinato si fa portatore di un’istanza di sincerità che le sue parole, la naturalezza talvolta venata di precarietà del suo racconto e dei suoi commenti paiono confermare. Ma nella dialettica tra immagine e parola si sfalda a poco a poco, impercettibilmente quanto inarrestabilmente, ogni facile immediatezza, per non dire ogni esibizione di ingenuità. L’impianto realistico del discorso si trasforma in interpretazione; l’oggetto lascia trasparire l’operazione di lettura (sottolineata dalla scelta di una vecchia videocamera VHS come strumento di ripresa, le cui imperfezioni di registrazione sono state mantenute nel montaggio finale).
Pierino racconta i suoi giorni, la metodicità delle azioni che li scandiscono nel loro succedersi implacabile: le spese, le visite al cimitero e all’edicola, il numero dei morti e quello dei giorni tra un bucato e l’altro, tra una rasatura e l’altra. Diventa un narratore, impone un punto di vista che, però, a sua volta si presta a diventare oggetto di quello interno alle riprese, alla messa in scena che lo cattura e, inevitabilmente ce lo restituisce come altra forma e “sostanza”.
È in questa quotidianità claustrofobica che fa irruzione il cinema. Irruzione che, si direbbe, non porta però con sé alcuna istanza di riscatto. Il cinema è, nella vita del protagonista, un’altra presenza costante, un’iterazione spettatoriale quasi ossessiva (non andarci per tre giorni di fila è una sorta di evento, come lui stesso osserva) che si raddoppia, a partire dai primi anni settanta, nella catalogazione dei titoli dei film visti, accompagnati da note tecniche e da simboli matematici che sintetizzano il giudizio positivo o negativo.
Più che “cinefilo” Pierino si definisce “malato di cinema”: una distinzione significativa così come significativa ci pare la scelta di assorbire i riferimenti alla materia cinematografica nella narrazione del quotidiano (il programma della lavatrice dura un’ora e trentatre minuti «come un film di Woody Allen»), senza dare a quella la preminenza che evidentemente deve esserci stata in ambito di ripresa, dal momento che nelle ultime inquadrature del film il protagonista ci tiene a scusarsi per aver parlato troppo della sua passione, a rischio di annoiare in questo modo i futuri spettatori.
Pierino è dunque, infine, per Luca Ferri, prima di tutto Pierino: soggetto di un discorso che prende la sua forma peculiare nell’irripetibilità dell’esistenza di cui è portatore (come tutti) ma che si trasfigura in oggetto di discorso cinematografico, nel quale tutti gli elementi della messa in scena concorrono a farne la cifra di un’avvincente indecifrabilità.