Il 25 aprile 2020 Al Pacino festeggia ottanta candeline. Mostro sacro le cui origini cinematografiche trovano espressione nel filone realista della Nuova Hollywood dei primi anni Settanta, Pacino debutta in sequenze di disadattamento sin da Me, Natalie di Fred Coe (1969), toccante descrizione di un disagio tutto al femminile, dove l’attore ventottenne si cala in uno scenario di emarginazione con una breve apparizione dopo circa undici minuti dall’inizio del film.
Nel frattempo Pacino incontra Jerry Schatzberg e assieme realizzano Panico a Needle Park (Panic in Needle Park, 1971), uno dei migliori film sulla droga, racconto serrato di una coppia di giovani eroinomani che fa vincere all’interprete femminile Kitty Will il premio per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes. Il metodo di Schatzberg predilige un’attenzione disadorna all’ambiente dei drop-out, con una misurata sapienza fotografica - qui a cura di Adam Holinder - per una riproduzione visiva ora fredda e scostante, ora calorosa e avvolgente, che aderisce alla recitazione secca e tesa di Pacino il quale offre rabbia e umanità a un personaggio reale e doloroso. Estraneo ai clamori del mainstream, il cinema di Schatzberg è essenziale e lirico, ma anche impietoso nel seguire i movimenti afasici dei suoi protagonisti. La vicenda di amore e dipendenza della coppia Winn/Pacino in Panico a Needle Park riflette lo spirito di questo cineasta che non proviene dagli stessi euntourage dei nuovi registi degli anni Settanta (università, televisione, produzioni indipendenti di Roger Corman); egli riprende piuttosto dalla sua esperienza di fotografo per “Vogue” e “Mc Call’s” l’impianto visivo, unendo al senso dell’inquadratura e all’osservazione per la vita quotidiana una naturalezza preziosa nella direzione di attori come Pacino, pronti a mostrare l’identità dietro la maschera. Con Pacino, Schatzberg esibisce un gusto sorprendente per i rapporti umani, con una regia attenta al realismo dei comportamenti e sensibile verso i sogni di personaggi disadattati. Il lavoro con l’attore proseguirà con Lo spaventapasseri (Scarecrow, 1973), storia di un’amicizia nata sulla strada, tra due vagabondi, Lion (Al Pacino) e Max (Gene Hackman), che non hanno perduto la speranza di una vita meno precaria; sin da subito paiono immersi in uno scenario di solitudine e lontananza, sul ciglio di una grande highway, quando, entrambi autostoppisti, attendono l’arrivo di un automezzo che li conduca al più vicino centro abitato. I due, un giovane e un uomo sulla quarantina, non si conoscono, ma presto Lion prende l’iniziativa e cerca come può di rompere il ghiaccio: si mette letteralmente a giocare davanti al taciturno Max per attirare la sua attenzione e strappargli un sorriso; simula una telefonata, aggrotta la fronte e piega le spalle deformandosi come uno spaventapasseri. Il trasformismo del futuro Pacino-guitto è qui alle prime armi, domato dal regista attento con evidente partecipazione alle sorti dei suoi drop-out. Max, burbero solitario, dapprima irritato, finisce per subire inavvertitamente la delicatezza di quelle attenzioni rivoltegli dallo stravagante ragazzo. È così che i due si avvicinano e continuano uniti il loro vagabondaggio. ASchatzberg va riconosciuto il merito di aver alleggerito gli interpreti dal peso del loro carisma, accarezzando la naturalezza intima e accorata del loro incontro attraverso una regia che coglie un’atmosfera di realismo senza negare l’adesione emotiva alla vicenda, fatta di silenzi, rallentamenti e slanci euforici. È in scena un episodio esistenziale, con due persone che si avvicinano per cercare un senso alla loro vita randagia e sfortunata. Senza manierismi e vezzi stilistici, la narrazione armonica predilige lunghi segmenti che offrono spazio agli interpreti, mentre il generoso ritratto di ambienti della quotidianità domestico-lavorativa (interni di abitazioni, supermarket e ritrovi pubblici), non appare incline ad un naturalismo ostentato. Il cineasta, attraverso la morbida fotografia di Vilmos Zsigmond, non vuole rendere più complessa la visione attraverso una sostenuta corsa cinetica o una sovrapposizione di storie come accadrà spesso nel cinema americano degli anni Novanta: guarda dritto ai comportamenti dei protagonisti e rimane loro fedele.
Tra i film degli anni Settanta di Pacino, Lo spaventapasseri è uno dei momenti meno mitizzanti. Mentre il forte protagonismo di film come Serpico (id., 1973), Quel pomeriggio di un giorno da cani (Day Dog Afternoon, 1975) e Cruising (id., 1980), sarà in linea con l’ascesa divistica dell’attore consacrato dal ruolo di Michael Corleone nella saga de Il Padrino (1972), Lo spaventapasseri rimane un film non edificante, con i toni di una ballata amara modulata dalla sensibilità degli attori e impreziosita da una misura capace di delicatezza e ironia. In questa vicenda di ambizioni tradite e poesia della deriva, il Lion di Pacino è un trentenne schizofrenico vittima (anche) dell’incomprensione. Separato da una donna meschina con cui ha avuto un bambino, lo vediamo trascinarsi a lungo per le città con l’idea di recare un dono al figlioletto che non è mai riuscito a vedere e di cui gli rimane ignoto persino il sesso. Il suo precario equilibrio è molto evidente in una strana forma di altruismo: far sorridere chi lo avvicini per scacciare dal volto amarezza e delusioni. Secondo lui, gli uccelli non volano via per paura dello spaventapasseri, ma perché il fantoccio suscita la loro risata. Allo stesso modo, Lion si comporta nel film con le persone. Le diverte perché ha paura delle loro possibili reazioni. Un simile atteggiamento, misto di immaturità e disperazione, ottiene il suo effetto proprio con l’incredulo e burbero Max, litigioso ex-carcerato di San Quintino interpretato con l’abituale bravura Gene Hackman, il quale, disarmato dalla fragilità del ragazzo, si affeziona a lui, riscoprendo il gusto dell’ironia e una maniera meno brutale di scendere a patti con l’altro da sé. Quando Max, una volta accompagnato l’amico all’ospedale, scopre la malattia dell’amico, mostra lo smarrimento del suo carattere abitualmente pragmatico in una reazione in cui si sfalda la sua corazza rude, mostrando quella sensibilità che ha avuto poche occasioni per manifestarsi. Lion e Max, caratteri agli antipodi, sono abituati a nascondere, il primo propriamente a rimuovere, quegli aspetti che la piche non tollera. L’amicizia che nasce per contrasto dei rispettivi caratteri, assume nel film note di partecipazione accalorata: sono i piccoli-grandi sogni a brillare negli occhi dei personaggi, quello di Lion di conoscere il suo bambino e quello di Max che avrebbe voluto Lion con sé nel suo progetto di normalità, un’impresa di autonoleggio per condividere il gruzzolo messo da parte. Max però dovrà arrendersi dinanzi alla malattia dell’amico. Lion/Pacino, per tutto il film, si comporta con se stesso come lo spaventapasseri farebbe con gli uccelli, si difende dal dolore per poi sprofondare in una crisi letale quando ormai nessuna difesa potrà salvarlo. E’ una poesia dolente della strada che non conosce troppe repliche di eguale intensità nel cinema americano a seguire, allorché in Schatzberg lo sguardo amaro si confronta con una verità che non fa sconti. L'interpretazione di Al Pacino fu fondamentale per la vittoria della Palma d’oro assegnata al film a Cannes nel 1973.