Una premessa, che è un avvertimento: non staremo qui a discutere se Bob Dylan meritasse o meno il Premio Nobel, se ci fossero scrittori più consoni da rivestire con corone d’alloro, se questa benedetta incoronazione sia diventata – come suggerisce il protagonista Daniel Mantovani nel discorso di accettazione che apre il bel El ciudadano illustre, da poco presentato a Venezia – un riconoscimento postumo in vita e che quindi, più che anticipare le tendenze culturali e artistiche, le certifica con anni di distanza.
Il Premio Nobel a Bob Dylan è soprattutto, per chi scrive, l’accettazione di un’idea fondamentale, che ancora fatica a trovare spazio in un mondo culturale che urla all’abbattimento delle barriere e poi disegna una rappresentazione monadica delle arti: la letteratura (per quello che ancora può significare una definizione rigida) non si esaurisce nella rilegatura di un libro in brossura ma fa i conti (deve fare i conti) con l’impatto che riesce ad avere sulla cultura popolare, con la definizione di un immaginario, con la propria capacità mitopoietica, con l’aderenza reciproca al tempo che si vive. E quindi, pensando al Nobel a Dylan, viene solo voglia di festeggiare.
Perché l’impatto di Dylan nella cultura americana degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso ha generato un’onda lunga che sa parlare anche ai millennials che inneggiano a Bernie Sanders, perché il suo corpus artistico ha radici antiche (il folk politico, le protest songs) che non hanno mai smesso di guardare, anche polemicamente, al futuro – la svolta elettrica di Newport è un atto di anticonformismo alle regole proprio come i reading della controcultura poetica di quegli anni che rifiutavano le élite per sedersi in strada – per poi distoglierne lo sguardo rifiutando ogni etichetta. Il neoclassicismo degli ultimi anni – il volgersi alle radici blues e persino a Sinatra, simbolo del crooner dal bel canto in passato messo in scacco proprio dalla radicalità dylaniana – è l’ultimo “twist of fate” della figura Dylan, refrattaria a ogni schema precostituito, artista totale e anima multiforme, come aveva perfettamente capito Todd Haynes donandogli un corpo diverso per ogni situazione nel magnifico I’m not There.
Dylan è intimamente un poeta e palesemente un narratore. Debitore onomastico di Dylan Thomas, è stato capace di costruire mondi per frammenti, di spaziare dalla narrativa in versi – con suggestioni che partono dal surrealismo europeo e dal grande realismo americano per arrivare fino alla cultura pop, masticata digerita metabolizzata rivoluzionata – al talking blues derivato da Woody Guthrie e declinato in chiave del tutto personale. Dopo il disco d’esordio, Dylan pubblica The Freewheelin’ Bob Dylan, inzeppato di canzoni che sono già inni generazionali ma dai quali l’autore stesso cerca subito di scappare. La continua fuga da se stesso, le giravolte artistiche, l’ansia di libertà, la capacità polimorfa di rappresentare il suo tempo senza mai rinunciare a rappresentare sempre e solo se stesso, fanno di Dylan un emblema esemplare della libertà creativa.
Quando il pubblico implorava folk, lui imbracciava chitarre elettriche; quando in lui si cercava l’impegno senza se e senza ma, lui si avvitava in un lirismo dalle sfumature esistenziali; quando si pretendevano parole d’ordine, lui regalava ermetismi. Si è cercato di sottolineare, in questi giorni di dichiarazioni di dissennata superficialità, che Dylan ha anche pubblicato poesie – “i poeti, che brutte creature”, cantava l’emulo romano De Gregori – come se le liriche di Desolation Row, di Visions of Johanna, di Ballad of a Thin Man non bastassero da sole a giustificare la definizione di autore letterario.
Dylan in fondo non è un cantante o un cantautore – o almeno non è solo quello – ma un costruttore di mondi e un creatore di storie pienamente compreso nella storia culturale americana del Novecento. Non è un caso la sua curiosità verso il cinema – attore, compositore per Peckinpah e anche regista di un film che molti, prima di parlare, dovrebbero vedere: Renaldo and Clara, una sorta di compendio di letteratura sperimentale per immagini – o verso forme diverse di narrazione (il flusso di coscienza di Chronicles, un’autobiografia che nega ogni pruriginosa sistematicità biografica per piegarsi al potere della parola). Dylan, insomma, può essere letto o ascoltato, compreso o ignorato, messo su un altare o gettato nella polvere. Resta il fatto che la sua arte ha informato la cultura, americana e non solo, degli ultimi cinquantaquattro anni – tanti ne sono passati dall’uscita del suo primo long playing – come pochi altri artisti. Se si vuole negare l’evidenza, accomodatevi. Io, nel frattempo, mi riascolto Blood on the Tracks, una delle opere d’arte imprescindibili dei nostri tempi isterici. Vediamo chi sta meglio.