Tre film di Max Ophüls arrivano in sala grazie a Lab80: Tutto finisce all'alba (Sans lendemain, 1939), Da Mayerling a Sarajevo (De Mayerling à Sarajevo, 1940), Il piacere (Le plaisir, 1952). È l’occasione per rivederli e riflettere sullo stile di un regista elegante e moderno, sul continuo movimento del suo cinema, sulla complessità di una messinscena che avvolge, ingabbia, incornicia la realtà e i suoi personaggi.
Tutto finisce all’alba racconta la resa al destino di una donna, Evelyn: forte, indipendente, innamorata, ma incapace di continuare a mentire. Vedova di un gangster suicida, per mantenere il figlio Evelyn lavora come ballerina in un locale di Montmartre. E quando ritrova il dottore canadese Georges, che anni prima aveva amato e poi abbandonato, per un attimo crede di poter finalmente tornare felice. Ma rifiuta di rivelare la verità sul proprio lavoro e la propria condizione disonorevole. E nonostante Georges la ami ancora, sono troppe le cose contro cui Evelyn deve combattere.
Ophüls riprende la sua eroina orgogliosa e disillusa spesso immergendola nel buio – un’anima divisa in due che ha accettato la propria infelicità.
Oppure lascia alla splendida Edwige Feuillère il peso di primissimi piani lunghi e intensi.
Evelyn è una figura moderna: unica donna tra quattro personaggi maschili a loro modo fallibili (ingnui, disillusi, falliti, criminali), sembra la sola a comprendere la natura istintivamente malvagia dell’animo umano. Evelyn si arrende, ma in realtà è lei stessa, rifiutando il lieto fine della storia romantica, a definire la propria realtà. È lei a definire lo spazio della messinscena, come si vede bene in questo passaggio:
Dall'angolo della stanza in cui si è rintanata, Evelyn, con un movimento quasi violento nella sua originalità, si muove verso l’obiettivo: aggredisce lo spazio e lo spettatore. E il movimento all’indietro della macchina da presa è straordinario e rivelatore, fa della protagonista femminile la segreta padrona del film, quasi le si inchina, facendo spazio al suo passaggio.
Al contrario, la protagonista femminile di Da Mayerling a Sarajevo, la contessa ceca Sophie Chotek (seempre interpretata da Edwige Feuillère), moglie dell’erede al trono austriaco Francesco Ferdinando, è raffigurata per tutto il film come una prigioniera. Una donna liberata dall’amore ma oppressa dalle regole della corte asburgica. Ophüls legge la storia del primo ’900 in chiave romantica, è storicamente inaccurato e a tratti superficiale; visivamente, però, getta le base per i melodrammi americani che girerà egli stesso (in particolare Nella morsa) e per quelli di un altro regista mitteleuropeo che emigrerà a Hollywood (Douglas Sirk, ovviamente). Quando Sophie viene invitata a firmare un contratto che la allontanerebbe da Francesco Ferdinando e dalla corte, il primo piano che ingabbia la donna tra le inferiate della finestra è una visione da Secondo amore, da Come le foglie al vento... Il movimento spezzato dal campo e controcampo dice tutta la differenza tra questo film e Tutto finirà all’alba, la rappresentazione di una forza superiore (la Storia) che vince sui desideri del singolo.
La forma naturale del cinema di Ophüls è il cerchio (e anche per questo La Ronde sarà il suo capolavoro); il suo movimento per eccellenza, il piano sequenza. Nel Piacere la ricerca del movimento continuo è così maniacale da essere quasi leziosa. L'estrema artificiosità della messinscena serve per avvicinarsi al materiale letterario del film (che è ispirato a tre novelle di Maupassant), costituisce la cornice del racconto. Il piacere è uno straordinario esempio di myse en abyme, una voce narrante che introduce in un mondo fatto di spazi che contengono altri spazi, di storie che contengono altre storie... Il secondo episodio, in particolare, è aperto da un lungo piano sequenza che usa lo spazio di una casa come una scenografia teatrale (un movimento di cui si ricorderanno in molti, primo fra tutti Wes Anderson).
La macchina da presa mostra la casa e le sue abitanti, mentre la voce narrante svela nomi e storie. Immagini e parole sono in sintonia perfetta, e al tempo stesso si sovrappongono in maniera ridondante. Ophüls sottolinea, raddoppia, aggiunge, esagera. Non sono più i personaggi a prendere possesso del film, come in Tutto finisce all'alba, ma a distanza di tredici anni, con di mezzo una guerra, un trasferimento a Hollywood e un ritorno in una Europa completamente cambiata, è il contrario: è il cinema che racconta con uno spettacolo opulento la vita e la sua effimera bellezza.