È come quando all’improvviso si spegne una luce, come quando una lampadina che si pensava inestinguibile vira d’improvviso al buio. Per chi, come me, vive di cinema e ha avuto l’onere e l’onore di nascere nel 1969, non esiste nessun altro cineasta che possa rivendicare una centralità nell’immaginario personale come David Lynch.
Eraserhead era un fantasma che camminava nei cineclub romani, proiettato con coraggio da Silvano Agosti nel suo Azzurro Scipioni e ossessivamente ripropostomi da mio padre; The Elephant Man conquistava le sale del centro, suscitando lacrime e commozione come un film mainstream, pur essendo lontanissimo da quella “maniera”. L’insuccesso di Dune contribuì a creare fazioni, a discutere su quell’inqualificabile fenomeno. Velluto blu fu invece una rivelazione, la scoperta che con le immagini si era ancora capaci di creare un senso “diverso”, “altro”, in grado di indagare oltre le nostre possibilità interrogative. Velluto blu è stato un passaggio fondamentale, un film capace di rimettere in discussione la nostra capacità interpretativa, la nostra forza di comprensione, l’abituale capacità di discernere. Velluto blu ha rappresentato il mistero, la malattia, la psicoanalisi. Velluto blu si è messo di traverso rivendicando la forza del senso sul significato, ristabilendo una catena di priorità, regalando al cinema una forza rinnovata e un ruolo nuovo. Ed era solo l’inizio. L’orecchio tagliato di Velluto blu ha continuato a risuonare in noi, a perderci nella conta delle formiche, a spiazzarci con la scelta consapevole di una rivelazione mai consequenziale. Ricordandoci che il cinema – il racconto, la prassi – è un’operazione di scoperta e non di certezza. Di epistemologia, per quanto faticosa, e non di sicurezza nei gesti e nei modi. Lynch è, del resto, un cineasta scomodo, pur distillato nella gentilezza dei suoi gesti.
Il successo – meritato, per quanto faticoso – è forse arrivato con la Palma d’Oro di Cannes del 1990. Bernardo Bertolucci assegna la vittoria sulla Croisette a un film palpitante e misterioso, feroce e dolcissimo: Cuore selvaggio scortica la pancia americana raccontando storie di mistero e passione, frullando le giacche di Elvis e il Mago di Oz, altalenandosi in bilico tra magia e pulp, tra sofisticatezza cinematografica e violenza estremizzata. Dal punto di vista personale è un’epifania: Sailor e Lula sono gli eroi sbagliati che sento di meritare e che infine merito. Sono lo specchio di una generazione che neanche conosciamo, ma di cui cogliamo i confini culturali.
Lynch è un segreto, un mistero, riconosciuto dai maestri – Bertolucci, appunto – e disconosciuto dai più. E allora? E allora il più grande colpo di genio dell’immaginario audiovisivo degli ultimi cinquant’anni: Twin Peaks, l’ingombrante antenato di qualsiasi serialità televisiva, che nessuna serialità televisiva è in grado ancora di raggiungere, neanche di sfiorare. Lynch esplode nell’idea della serie tv facendola letteralmente detonare: i mercoledì, dal 9 gennaio 1991, per quelli della mia generazione non sono stati più gli stessi. La frase d’obbligo – “chi ha ucciso Laura Palmer?” – era l’unica frase sensata del momento. Nulla, o quasi nulla, in quegli anni ha saputo catturare un valore simbolico, una deriva psicotica che sapeva rappresentare il male, i mali, tutti i mali. Twin Peaks ha formato – anzi, deformato – l’immaginario di un’intera generazione che davanti a vecchi schermi catodici ipotizzava un futuro di perdizione e dannazione, annegava dietro a psicosi familiari e a peduncoli di ciliegia annodati per provocare, per sedurre, per arrendersi. Twin Peaks ha cambiato tutto e quei cambiamenti ancora tremano, certi della loro lucidità, fermi nel proprio avere un passo ben piantato nel futuro.
Lynch è stato – anzi, è, per Dio, è – un regista da dieci film, un esempio di asciuttezza creativa. Dopo Fuoco cammina con me, necessario spin-off di quella creatività televisiva senza tempo e senza spazio, ci ha regalato solo altri quattro film. Strade perdute è forse il più feroce racconto sull’inconscio che abbiamo a disposizione. In Una storia vera rimastica le radici del sogno americano regalandoci – lui, gran creatore di realtà parallele e inconoscibili – il film più radicalmente classico capace di rappresentare idealmente la fine di un secolo, di un millennio. Fino ad arrivare al dittico che, purtroppo, ha chiuso la sua carriera sul grande schermo: Mulholland Drive e Inland Empire. Il primo è forse il grande capolavoro del cinema come oggetto di psicanalisi: un’opera che continuamente muta e si riforma, genera immagini da analizzare, frena e riparte, si reinventa dalle proprie ceneri. Inland Empire è invece un film-non film: oggetto che crea sbalordimento e vertigine. Non dice, espone. Non racconta, ipotizza. Non crea, distrugge. Inland Empire è una bomba atomica contro un immaginario stabilito, un atto sovversivo contro ogni normalizzazione, un incubo in un mondo che si vorrebbe di sogno.
In fondo, tutto il resto è noia: Lynch ci ha accompagnato in territori stranieri, spesso ostili. Ci ha mostrato il buio dove aspettavamo luce e viceversa. Ci ha insegnato a ipotizzare oltre il nostro naso, a vedere oltre ogni plausibile apparenza. Per questo è bello rendersi conto che quella luce spenta all’improvviso, quella lampadina da Archimede Pitagorico, in realtà continua a emanare fiamma, contro ogni regola costituita, contro ogni senso comune di realtà, perché il senso comune di realtà non si addice a David Lynch: troppo stretto, troppo ovvio, troppo costringente e soffocante per un creatore di fantasmi e ombre, di dubbi e illusioni, di immagini perturbanti e ipotesi disturbanti, la materia in fondo più fertile di cui è fatto – fin quando il mondo ce lo permetterà – il cinema con cui siamo costretti a confrontarci, per poi riuscire ad amarlo fino in fondo.