Una filmografia, quando si tratta di una filmografia d’autore, perciò coerente e compatta come quella del tunisino Abdellatif Kechiche, dice molto di più di un singolo film, preso isolatamente e alla sprovvista. Sia pure intenso ed estremamente stilizzato come La vita di Adele.
Molte delle considerazioni che nascono dalla singola ed estemporanea visione necessitano sempre di un conguaglio con l’insieme, onde poter verificare le suggestioni occasionali, ancorché molto partecipate e ragionate.
Che Kechiche non fosse un autore impressionista, legato solo per ragioni di contenuto e adesione autobiografica a tematiche importanti e civili, come quelle dell'ingrata condizione degli immigrati nordafricani in Francia, era evidente già dal suo film d’esordio, Tutta colpa di Voltaire, dove appunto era la struttura in un certo senso “ritorsiva” verso il lieto fine e le aspettative del pubblico benpensante a prefigurare già il senso delle sue successive parabole segnate da una sconfitta inconfutabile, imprescindibile, improrogabile.
I finali consequenziali e logici dei film di Kechiche sono sì negativi e a prima vista sorprendenti, ma ad un’attenta analisi si rivelano né più né meno che l’esito narrativo, artificiale, di premesse di per sé drammatiche e insostenibili.
Premesse che spesso, come nel capolavoro Cous Cous (meglio, in originale Le graine et le mulet, che metaforicamente va oltre l’accezione stretta gastronomica imposta dal titolo italiano da buongustai) riguardano da vicino le disavventure individuali o familiari delle comunità di immigrati maghrebini sul civile e razionale suolo francese, così poco toccato storicamente e culturalmente dal remoto secolo dei Lumi, sebbene malauguratamente da esso contrassegnato (Tutta colpa di Voltaire, appunto, o letteralmente La fàute a Voltaire).
Ma che possono comprendere aspetti più trasversali e generali della condizione umana, ai quali l’orrendamente marcata e sfruttata diversità di razza e di sesso, nonché di provenienza geografica e culturale (Venere nera, tradotto correttamente), fanno da contraltare nel presente come nel passato.
Evidentemente La vita di Adele somiglia molto, per contiguità generazionale, a La schivata (altro titolo tradotto correttamente), ma nel descrivere il rapporto dei giovanissimi protagonisti va oltre le reticenze e gli inganni verbali e di classe malrauxiani. Se riprende Marivaux, questa volta è per insistere, anzi per accanirsi in maniera estremamente esplicita ma non erotica sull’evidenza carnale, proseguendo lungo la strada della corporeità esibita e scandalosa della lunga, tesissima sequenza che chiude Le graine et le mulet e ipoteca l’intero, museale, anatomico e accusatorio Venere nera.
Ma a fare la differenza per Kechiche è proprio questa spregiudicata volontà di portare tutto allo scoperto, di adombrare e vanificare l’improbabile linea di demarcazione (del desiderio, quello maschilista dello spettatore, cui si è allineata per antica convenzione la prassi del dispositivo cinematografico stesso) che intercorre tra il corpo e gli affetti.
Kechiche, se si guarda a ritroso la filmografia, non è dunque sempre e comunque un cauto autore delle inequivocabilmente buone pratiche tematiche. Ma uno che cerca le forme adatte per portare la sonda intima dentro le contraddizioni e oltre la soglia di sostenibilità della visione classica e sessista, per dimostrare attraverso le modalità della rappresentazione e le sue conseguenze definitive, siglate da finali bruschi e implacabili, che il cinema contemporaneo ha ancora qualcosa da dire, sfide da raccogliere e superare.