Il documentario di Roman Hüben Douglas Sirk: Hope as in Despair, è una ricca miniera per gli appassionati del regista tedesco. Ci sono molti interventi importanti, tra cui Jon Halliday, Denis Rossano, Todd Haynes e Bernard Eisenschitz, autore dello splendido volume Douglas Sirk, né Detelf Sierck pubblicato in occasione della Retrospettiva della 75 edizione del Festival di Locarno. Il documentario si apre con un’intensa citazione del regista tedesco che racchiude tutta la sua poetica: “I film sono sangue, lacrime, odio amore e morte. Non puoi fare film su qualcosa, ma solo film con qualcosa. Con gente, luci, fiori, specchi, sangue”. Rispetto a molti registi che considerano il lavoro con gli attori una parte necessaria del processo creativo senza apprezzarla particolarmente, i film di Douglas Sirk sono fatti da qualcuno che invece ama profondamente le persone, senza giudicarle. Nei suoi lavori, aveva dichiarato Fassbinder che in lui ha visto un grande maestro e punto di riferimento, per la prima volta si vedono le donne “pensare”, mentre nei film di Hollywood di quegli stessi anni sono sempre impegnate a fare cose, indotte a un attivismo incessante e operoso. Questo documentario mette in luce l’umanità e la grandezza di un regista che per molti, troppi anni, è finito nell’oblio della storia del cinema. Al punto che, riferisce senza essere più specifico Jon Hallyday, autore dello splendido libro di interviste a Sirk uscito nel 1971, il “grande dizionario italiano della storia del cinema” lo dava già per morto. Non sappiamo quale sia il dizionario in questione ma Sirk, che nel 1959 con Lo specchio della vita ha fatto per gli Universal Studio il record al box office, al massimo del suo fulgore ha lasciato gli Stati Uniti, ha fatto per un po’ l’insegnante di cinema a Monaco e poi si è ritirato a vita privata a Lugano lasciando che tutti si dimenticassero di lui.
Il bel documentario di Hüben sceglie un taglio narrativo umano, che esplora il lavoro di Sirk a partire dal grande dolore della sua vita: il figlio Klaus, che la prima moglie nazista gli strappa con l’appoggio delle autorità e gli impedisce di vedere e avvicinare perché, in seconde nozze, egli aveva sposato una donna ebrea. Quel figlio che recitava nei film della più bieca propaganda e che lui, padre, andava a vedere in sala come uno spettatore qualsiasi. Da questo documentario, si evince come Sirk utilizzasse la sua intima sofferenza, che non ha mai condiviso con nessuno, per raccontare le sue storie, usando tutti questi sentimenti per nutrire il suo lavoro. Emerge così il ritratto di un uomo di grande riserbo e pudore che ha parlato pochissimo del figlio e con una tale dignità che, quando l’ha fatto, ha domandato ad Halliday che l’aveva intervistato di non pubblicare quelle informazioni se non dopo la sua morte. Infatti, sarà solo dopo la sua scomparsa che il libro verrà integrato. L’uomo che ha fatto del melodramma la sua cifra stilistica, celava in sé una realtà ben più drammatica dei film che ha realizzato.
Scopriamo che tutta l’opera di Sirk è disseminata di questo anelato e impossibile rapporto con il figlio. Con il giovane attore Rock Hudson, nato nello stesso anno di suo figlio Klaus, nel 1925, egli si pone come un mentore rassicurante e paterno. In Magnifica ossessione, dove l’attore interpreta prima un irriducibile playboy e poi diventa un dottore umano e compassionevole, la trasformazione è resa possibile dal medico che gli insegna il mestiere e il rigore morale. L’attore che impersona questo medico è curiosamente di origine tedesca, Otto Kruger, ed ha una straordinaria somiglianza con Sirk.
Ma è nel film Tempo di vivere che la raggelata sofferenza interiore di Sirk raggiunge la sua massima espressione cinematografica, mettendo in scena una sorta di trasposizione visiva di uno dei tanti momenti mancati della sua vita di padre. Nel finale dell’opera, il protagonista sale sul treno per andare a combattere sul fronte russo, passando davanti a una suora che gli sorride. La carrozza è affollata di militari in partenza. All’improvviso, sale un ragazzino in divisa e la macchina da presa lo segue fino a che non si siede, si sofferma sul suo volto in primo piano. Avrà all’incirca sedici anni, che è l’età che aveva il figlio del regista, Klaus, quando è partito per la guerra, morendo all’incirca due anni dopo, senza che Sirk sia stato capace di sapere com’è morto e dove. A completare la scena, quella suora che abbiamo visto era interpretata da sua moglie Hilde. Il soldato che parte per il fronte russo, il ragazzino che sembra il sosia di Klaus e sua moglie. Nello spazio chiuso della carrozza di un treno, Sirk si mette a nudo in pochi secondi e una manciata di inquadrature, che contengono tutta la sua opera.