Quando Magnolia sta per finire, quando la pioggia di rane è passata e tocca all’epilogo chiudere i conti, Anderson fa partire la traccia So Now Then di Jon Brion e insieme la voce del narratore, che inizia proprio così: «So now then…».
Il tono è dolce, rassegnato, il peggio è alle spalle; tutto è più calmo, Brion scampanella la sua melodia malinconica e il film sembra finalmente sereno come l’infermiere compassionevole Phil, a cui Philip Seymour Hoffman dona il fisico roseo e rigonfio di una creatura asessuata, senza una vita privata o un segreto, un traghettatore dalla vita verso la morte, vestito di azzurro e di bianco, biondo, sbarbato e senza età.
Phil è un’immagine di cosi intensa purezza e bontà da essere quasi unica nel cinema americano contemporaneo, non ne ricordo una simile. Mi ha sempre fatto pensare al dottore di Magnifica ossessione di Sirk, quello che faceva la carità senza dirlo in giro, quello che muore nella prima scena ma resta per tutto il film il segreto padrone dei destini altrui. Phil è così, nell’ombra ma imprescindibile, paradossalmente leggero e invisibile.
«So che sembra pazzesco e che io sembro stupido», dice a un certo punto mentre prova a mettersi in contatto con Frank T.J. Mackey, «come se stessi girando la scena di un film dove il vecchio morente cerca il figlio. Ma, mi creda: siamo in quella scena. Io credo che mettano queste scene nei film perché succedono veramente».
Succedono veramente, Phil. Succedono come il miracolo di vedere un attore corpulento e ingombrante trasformarsi nell’eterea raffigurazione di un angelo.