Il più evidente tra gli innumerevoli talenti di Philip Seymour Hoffman era quello di rendere ogni sequenza in cui era in scena un momento indispensabile nella costruzione dei suoi personaggi.
La sua recitazione limpida – tecnica cristallina che sapeva variare il registro emotivo con un movimento composto, un battere di ciglia – concentrava in pochi attimi le coordinate di un personaggio.
In Onora il padre e la madre, Hoffman definisce il protagonista Andy Hanson come uno scultore fa con la materia: un colpo di scalpello e uno di carta vetrata. Scheggiare e levigare. Il risultato è di una complessità sconvolgente: un personaggio feroce che si arricchisce durante il film di note dolenti e tragiche, affonda e si affina, scandaglia le profondità amorali di un uomo sull’orlo perenne di un baratro.
Hoffman lo rende umano senza la retorica dell’empatia: Andy ha problemi finanziari e un matrimonio che non funziona. Convince il fratello minore, amante della moglie, a organizzare una rapina nella gioielleria dei loro genitori. Niente armi, nessuna conseguenza, la copertura assicurativa a sfumare i confini di un piano aberrante.
Ma il regista Sidney Lumet sa invece che ogni azione conduce a una reazione a cui non c’è rimedio: il male – prima ancora che banale – è mediocre e meschino. Tutti i personaggi sono negativi, incoscienti portatori di disastro. Soprattutto, primus inter pares, l’Andy di Hoffman.
Ogni volta che il suo personaggio entra in scena il film si carica di una forza amorale che ha in sé carica umana ed evocazione metafisica. Gli altri protagonisti sembrano avere una loro dimensione univoca. Andy invece attraversa il film come una bomba inesplosa: una ferocia compressa che si traduce in un’interpretazione di sfumature, di gesti trattenuti che contengono una furia inesprimibile.
Hoffman sa distillare il meglio dai suoi antagonisti: Ethan Hawke, Marisa Tomei, persino il grande Albert Finney si librano a un differente livello di intensità quando duettano con lui. Su tutte, per la chirurgica attenzione al dettaglio, spicca la scena in cui la moglie Gina va via di casa.
Dopo un dialogo tutto in sottrazione – sguardo basso, braccia conserte, movimenti trattenuti, voce appena incrinata – Gina esce. E Andy demolisce il suo passato – lenzuola, vasi, trucchi, profumi, soprammobili – con una lentezza estenuante, irreale, silente. Un momento attoriale baciato dalla grazia. La perfetta espressione di un dolore che non conosce più rabbia. Un naufragio violento su un mare apparentemente in bonaccia.