Fino a che punto un uomo, nella ripetizione quotidiana del gesto, sempre identico a se stesso, è in grado di mantenere qualcosa della sua umanità, prima di trasformarsi definitivamente nell'ingranaggio di una macchina che perpetua all'infinito il suo moto?
Un corpo occupa una porzione di spazio, i suoi movimenti un tempo ben definito, come fosse un dispositivo automatico. Si tratta di un corpo inteso come pura forza lavoro, spassionato, anonimo, intercambiabile. Fino a che punto il gesto (e l'energia spesa per compierlo) è impiegato per ottenere un prodotto (e di conseguenza un fine mercantile)? Quando si riduce a semplice reiterazione di un codice condiviso?
Il potente film di Mauro Herce, Dead Slow Ahead, svela la linea sottile e ambigua che distingue questi due ordini di valore, mostrando un ulteriore scarto, il momento in cui l'uomo si riappropria della sua umanità. Impressionante il contrasto tra l'atto meccanico del corpo messo al lavoro e la fatica più visibile del medesimo corpo nell'atto di cercare un appagamento, fisico e psicologico.
Il ciclo continuo delle mansioni svolte da un gruppo di uomini su una nave da carico che solca l'oceano, è interrotto da un solo momento di svago: il gruppo si ritrova una sera a fumare, bere, ascoltare musica e cantare in una specie di karaoke improvvisato. Lo sforzo per raggiungere un seppur minimo divertimento (il sudore che cola dalla fronte, le urla emesse nel canto, le risa ubriache) appare di gran lunga maggiore rispetto a quello impiegato per svolgere i doveri quotidiani, dove tutto risulta appiattito in una sorta di stato comatoso. La produzione è in grado di creare una parvenza mortifera di non-morte, in cui viene a crearsi un equilibrio tra forza spesa e risultato. I corpi non sembrano faticare nella loro attività macchinica. La rottura dell'equilibrio di un sistema, che lo porta irreversibilmente verso il disordine, è dovuta a un cambiamento (aumento) di un valore che regge il sistema. La dispersione di energia, nel momento in cui diviene visibile, rende visibile anche l'avvicinamento di quel corpo alla morte. L'energia è sempre energia vitale. Lo scarto, dunque, nel film di Herce, si produce in questo modo: il livello di energia spesa da un corpo impiegato come forza lavoro c'è, ha raggiunto un equilibrio che sembra perpetuo, ma non si vede, tanto da far apparire il corpo come un ingranaggio tra gli altri, al pari di una pompa o uno stantuffo, parte di una catena di montaggio; nel momento di umanità, quello stesso corpo rende visibile la dispersione di energia e il suo avvicinamento, di conseguenza, all'esaurimento della vita. La vitalità, dunque, per contro, mostra immediatamente il suo opposto, ossia la morte, mentre l'appiattimento (assai più tremendo) della reiterazione del gesto lavorativo è svelata in tutta la sua ambiguità: non avere il suo vero contrario, non avere un'alterità.
Dead Slow Ahead è un film interlocutorio, che pone lo spettatore nella condizione di doversi interrogare sulla propria esistenza e sul rapporto che il suo corpo ha col capitale. Quanto di ciò che viene messo in campo ogni giorno (attenzione, vigore, tempo) per adempiere a una serie di compiti che permettono di guadagnarci da vivere ci conducono verso una situazione di immobilità e stasi? Quanto in noi è ancora in grado di far resistenza?
Se nell’altrettanto straordinario Leviathan (2012) di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel, presentato sempre al TFFdoc, gli uomini si confondevano con i pesci e i gabbiani, le onde e il vento, avendo la medesima importanza – tutti erano protagonisti allo stesso modo, come veniva ribadito nei titoli di coda, dove, accanto ai nomi di pescatori e marinai, venivano citati gli animali che comparivano nel film – in Dead Slow Ahead l’essere umano si mescola, diventando un tutt’uno, con la nave e le parti che la compongono, svanendo come un fantasma.
Quel che resta, alla fine, sono le voci di alcuni marinai che telefonano alla moglie, cercano di mettersi in contatto con un mondo che possa dar loro l’impressione di essere vivi, reali. Le voci, però, non hanno corpo, hanno un timbro, un tono, ma non un volto. Mentre ascoltiamo domande semplici, intime, tenere, non siamo nemmeno in grado di immaginare a chi appartengano. Una lunga fila di fotografie, come quelle poste sulle lapidi, testimoniano la presenza di chi sull’imbarcazione trascorre le proprie giornate. Ma la presenza, per contro, si rispecchia nell’immaterialità di quegli uomini, nella loro assenza: assenti dalle immagini, assenti forse a loro stessi.
Cosa resta, alla fine, di queste persone, che potrebbero essere morte, e in un certo senso, lo sono già? Forse un gesto di pura gentilezza nei confronti di un compagno, il prendersi cura dell’altro, solo poggiando una mela accanto al suo piatto. Forse la voce increspata da un sorriso lieve, dolce, nei confronti della donna amata. Oppure le urla di una canzone stonata, quasi incomprensibile, cantata in un momento di gioia disperata, di vivacità isolata. D’altra parte “la morte si sconta vivendo” (Giuseppe Ungaretti, Sono una creatura).