“Ho cercato l’essenza dell’agire criminale, partendo da fatti veri”. Con queste parole Salvo Cuccia introduce al pubblico Lo Scambio, suo primo lungometraggio di finzione, in concorso alla 33ª edizione del Torino Film Festival.
La pellicola, ispirata al rapimento e all’omicidio del piccolo Giuseppe di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia ed ex-mafioso Santino di Matteo, è ambienta in una tetra e silenziosa Palermo di metà anni ’90.
Il film racconta le vicende di un anomalo commissario (Filippo Luna), intento a risolvere un misterioso caso di omicidio, e la vita domestica della moglie (Barbara Tabita) la quale, schiacciata da un senso di colpa insopportabile, è costretta a vivere in un grande appartamento barocco di Palermo.
In bilico tra suggestioni metafisiche, incubi lisergici e crudo realismo, Cuccia inganna gli spettatori imbastendo un thriller psicologico dallo stile stucchevole, dove algide dissolvenze e oblique inquadrature dal basso esauriscono il rappresentabile in pretenziose velleità stilistiche, finendo con l’ostacolare un racconto potenzialmente interessante.
Prendendo le distanze dai recentissimo Suburra, dove la mafia viene inserita in uno scenario apocalittico, sovrabbondante e spettacolarizzato, Cuccia prova a restituire un pizzico di umanità ai propri personaggi abbozzando dilemmi morali, tensioni familiari e rapporti ormai sclerotizzati, in un film che fa del gioco delle parti, del non-detto e, talvolta, pure dell’indicibile, il suo punto di maggior forza.
Peccato, tuttavia, constatare come il giovane regista palermitano, con un apprezzabile background documentaristico e nella video arte (che riaffiora di continuo attraverso estranianti sequenze avveniristiche simil Under The Skin), preferisca anestetizzare gli spettatori piuttosto che coinvolgerli emotivamente nelle vicende.
Dopo l’ombrosa e improvvisa svolta a metà pellicola, il lavoro prosegue su binari noti e prevedibili, in un climax quasi grottesco di ricercatezza formale e colpi di scena, il cui unico effetto è quello di annacquare un minutaggio fin troppo generoso. Non mancano decise virate nel cattivo gusto, come nelle scena dove viene accostato il gesto di mescolare la trippa da parte della moglie del commissario al rimestare, nella successiva e speculare inquadratura, il corpo del giovanissimo prigioniero disciolto nell’acido, sequenza che ha destato l’ilarità generale del pubblico.