Un castello di paradossi per incarnare il paradosso per eccellenza che è la guerra.
Che cos'è, ridotta all'osso, la guerra, quella cosa che serve a costruire la pace? È uno scontro armato con il nemico? Il nemico, in Kilo Two Bravo, non c'è, o meglio si vede da così lontano, col binocolo, che appare come un puntino non meglio identificato, e i “nostri” si fanno male - e molto - praticamente da soli.
È una lotta senza quartiere in un luogo sconosciuto? Il film di Paul Katis riesce a essere claustrofobico in uno spazio aperto sconfinato, quello di un arido territorio color ocra, screziato da una quantità imbarazzante di acqua brillante (altro paradosso), nei pressi della diga di Kajaki. Per poi chiudersi ancor più nei pochi metri quadri minati in cui si svolge l'intera vicenda, ispirata a una storia tragicamente vera.
Un'ora e cinquanta di film per raccontare quello che sembra un assolato pomeriggio di svago e noia dove splendidi ragazzoni che paiono surfisti californiani, e invece sono parte del contingente bellico di stanza in Afghanistan, nell'anno di grazia 2006, diventano in pochi minuti prigionieri di un nemico invisibile. I loro corpi belli e prestanti, i loro volti da bravi ragazzi, in un battito di ciglia divengono carne viva da cui 'splatterianamente' penzolano tendini e ossa, maciullati da mine antiuomo seminate non dai propri nemici, bensì, probabilmente, da alleati passati di lì anni prima. Corpi giovani e abbronzati spappolati da fuoco (fuoco?) amico, insomma.
È strategia, la guerra? Tattica, attacchi intelligenti e nulla lasciato al caso? Nel film le mine antiuomo detonano per un passo falso e fanno saltare in aria, di continuo, soldati alleati, e insieme a loro, comodamente seduti in sala, anche gli spettatori, che in preda a una tensione senza respiro, ormai se lo aspettano anche, lo scoppio di un'altra stupida mina.
L'assurdità della guerra diventa parabola nella pellicola di Katis: la si fa da sé, senza nemici, con azioni 'buffe' (che fanno letteralmente ridere persino le bocche deturpate degli uomini a terra), scriteriate quanto più cercano di essere chirurgiche, con elicotteri che, per portare soccorso, fanno più danno ancora e, attesi allo spasimo, arriveranno sempre e solo «in ten minutes», ottusamente «in ten minutes», pur nello scorrere delle ore.
La quintessenza della stupidità umana, in una pellicola di guerra che è anche una riflessione metacinematografica sulla produzione filmica bellica, su che cosa si può e deve guardare, che cosa mostrare, che cosa vedere. Bella perché scarnificata, significativa perché riesce a dire ancora qualcosa d'altro sulla guerra, e su molto più di un conflitto, proprio attraverso un film - non film bellico in cui la macchina da presa riesce a rendere mossa una situazione di vero stallo. Una riflessione amara in cui si sente l'eco di film quali No Man's Land di Tanovic e Full Metal Jacket con le sue inquietanti canzoncine.
Un enorme, grottesco paradosso, come i versi onomatopeici di ribrezzo misti alle risa che si sentono in sala, lì dove pensi di non poter più reggere la vista di tanta carne fatta a pezzi, eppure continui a guardare perché quello che vedi, tragicamente, inesorabilmente, invece, ti guarda dritto negli occhi.