Una bambina sogna.
Parte (semplicemente?) da qui I racconti dell’orso, opera prima italiana presentata in concorso al Torino Film Festival.
Una bambina sogna un mondo fiabesco, dominato da una natura selvaggia eppure attraente, dove un monaco meccanico e un omino rosso s’inseguono, trovano un orso di peluche malandato e iniziano a cooperare per ripararlo.
È un soggetto che è solo una traccia per una (non) sceneggiatura dove le immagini sembrano (in)seguirsi senza aver bisogno di rispettare un copione prestabilito.
Ed è un fatto curioso, per il nostro cinema almeno, dove gli esordi – e non soltanto loro – si sforzano tremendamente di differenziarsi per la fotografia, i contenuti, il montaggio, ma in fondo finiscono (quasi) sempre per percorrere traiettorie narrative già ampiamente consolidate e del tutto sicure.
Ai giovanissimi Samuele Sestieri e Olmo Amato, invece, questo non interessa e il loro è un film di sensazioni audiovisive più che di obblighi narrativi, dove a colpire è, in particolare, la pista sonora, curatissima e pensata come reale coprotagonista dell’intera (non) vicenda.
È un universo onirico, certo, e “vale tutto”, ma non pensiamo a una sperimentazione fine a se stessa e sregolata perché, a ben guardare, c’è un rigore quasi geometrico nelle inquadrature, nei tempi morti, nel modo in cui i personaggi si fondono e fin si confondono col paesaggio circostante.
Finanziato (anche) grazie al crowdfunding, questo “ufo” – come l’hanno definito gli organizzatori della kermesse piemontese – è un prodotto che si fatica a classificare, non tanto perché non ci siano dei punti di riferimento già esistenti ma, al contrario, perché ce ne sono forse troppi.
Dal fumetto ai videogiochi, passando per Star Wars: sono continue le incursioni pop in un film che, paradossalmente, non si può certo etichettare in questo modo. Si può pensare alle opere di Maurice Sendak, indubbiamente, mescolate però con la videoarte e con una spruzzata di Terrence Malick.
Capiamoci, I racconti dell’orso non è certo un film perfetto (la durata del mediometraggio gli avrebbe probabilmente fatto meglio anche a causa di qualche ridondanza), ma, pur con i suoi difetti, è dotato di un proprio sguardo e non ha paura di abbracciare in toto una visione personale del cinema e, forse, della vita.
La speranza è che una distribuzione sempre più omologata se ne accorga e, una volta tanto, rischi davvero qualcosa quando si tratta di esordi di casa nostra. Il diverso, in fondo lo sappiamo, non è mai facile da accettare, ma una volta che lo si va a conoscere è spesso colui che riesce a farci scoprire quel qualcosa che gli altri uguali non sarebbero mai riusciti a proporci.