Come si può tradurre in parole che esplicano quello che si propone come un poema visivo, quindi inevitabilmente enigmatico?
Tre donne, di Sylvia Plath è la trascrizione in immagini di un radiodramma trasmesso la prima volta il 19 agosto 1962 alla BBC. E' una delle opere meno conosciute di Sylvia Plath (1932-1963), una poetessa la cui opera in sé (notevolissima per disperata, sensuale e scarnificante lucidità, in Italia edita da Mondadori) quasi rimane inestricabile dalla vita tragica, insopportabile, costellata di tentativi di suicidio (l'ultimo riuscito la prima mattina dell'11 febbraio), depressioni e cure psichiatriche, con un matrimonio - che definire travagliato è un eufemismo - con un altro grande poeta, Ted Hughes, dai comportamenti quantomeno discutibili, più due figli e una incolmabile solitudine.
Bruno Bigoni è un filmaker che non è mai venuto meno da una sua linea artistica, appartata e coerente a partire dai secondi anni '80, costruita su una ricerca di rapporti tra cinepresa, arte, teatro, danza, poesia, trovando in Francesca Lolli, uno spirito sodale per analogia di interessi (insieme hanno firmato nel 2019, Voglio vivere senza vedermi). Tre donne, di Sylvia Plath ha il suo nucleo nelle esternazioni di tre personaggi-voci, indipendenti tra loro, alla prese con la maternità. Come ci spiegano le note di regia, la prima è quella di una casalinga che vuole un figlio, la seconda quella di una impiegata che perde il figlio che pure desidera, la terza quella di una studentessa che inizialmente rifiuta l'idea stessa di maternità ma che poi accetterà.
Sono tre confessioni «flusso di coscienza», due in originale e sottotitolate, una tradotta in italiano. Immagini a volte di assoluta bellezza si mescolano alle voci, alle frasi, a una musica ricercata che accompagna e aggettiva l'andamento del discorso.
Spesso qualche frase è di abbacinante potenza e doloroso stupore: «Quando cammino fuori sono un grande avvenimento. Non devo pensare e nemmeno fare le prove» (la prima voce). «Quando vidi la prima volta il piccolo zampillo rosso, non ci ho creduto» (la seconda voce). Oppure: «Colombe e parole. Stelle e scrosci d'oro. Pensieri. Mi ricordo un'ala bianca, fredda. E un grande cigno con il suo terribile sguardo che veniva verso di me, come un castello alla sommità del fiume. C'è un serpente nel cigno....» (la terza voce). Le interpreti, doverosa citazione, data la non semplicità di quel che vien loro richiesto, sono Giulia Battisti, Chiara Buono e Alice Spito.
Come si capisce, il discorso è di altissima densità e le immagini hanno il loro daffare a trovare corrispettivi visuali di livello. Una operazione tutt'altro che facile, alla ricerca se non di una narrazione tradizionale, almeno di un ritmo suggestivo al servizio della scabrosità della parola. E questo, aldilà di una inevitabile algida ostilità a farsi decifrare, è indubbiamente un obbiettivo raggiunto.