Orlando di Daniele Vicari, ex critico di Cinema Nuovo, documentarista, sceneggiatore, saggista e regista di film di successo come Velocità massima (2002) o Diaz (2012), punta molto più in alto di quanto la sua struttura semplice e lineare sino alla prevedibilità narrativa faccia supporre.
Orlando è un anziano contadino che vive solo, di parche parole (“Io non faccio mai domande, parlo quando tengo qualcosa da dì”) ma non acrimonioso (è l'anima, con la sua fisarmonica, di serate e feste danzerecce), in un paese arroccato nell'entroterra dell'Italia centrale. Un giorno riceve un telegramma che gli chiede di raggiungere il figlio a Bruxelles. In una metropoli “aliena”, senza conoscere la lingua e con un carattere diffidente e ispido che non lo aiuta, si troverà di fronte a una tragedia, la morte imprevista del giovane, da cui si era separato non senza qualche screzio (“Io non ho cercato a isso e isso non ha più cercato a me”), e a un problema di quelli che scombussolano l'esistenza: c'è una nipotina, Lyse, di 12 anni, che non ha altri parenti oltre a lui. Apparentemente autonoma e autosufficiente, la ragazzina gli chiede di occuparsi di lei, con tutte le sue esigenze. Straniero in terra straniera, 75enne con solo licenza elementare, sarà davvero dura, anche se la sua scorza di lavoratore lo rende particolarmente resistente e alcuni italiani, persino tra gli assistenti sociali, gli daranno qualche aiuto.
È la storia – che molti vedono come favola – di una ricerca a tempi contingentati di un rapporto, inizialmente doveroso ma che poi diventa, ovviamente, anche affettivo. Ma è anche un confronto tra due mondi, due mentalità più ampie e universali: “lui è il simbolo di un passato che non passa e lei è la generazione “Greta Tumberg”, una nuova generazione di europei che dovrà costruire un mondo nuovo”.
Ma se Orlando si può dire riuscito nell'ambientazione, in cui spicca la natura extratemporale della campagna del reatino a confronto con le luci al neon di una metropoli non ostile ma incomprensibile, con musiche di accompagnamento di Teho Teardo (spesso ballad elettriche con chitarra distorta) che stridono (effetto voluto?) con l'emotività della sentimental comedy moderna, lo è un po' meno proprio nel “duello” di caratteri dei personaggi. Per reggere un gioco a due e caricarlo di sensi e suggestioni coinvolgenti occorre che nasca una grande empatia per i personaggi. E se questo avviene con l'Orlando di Michele Placido, che recita ripescando le proprie radici meridionali-contadine, con un corpo integro e sagomato dall'età, concentrato di selvatica dignità in cui è facile riconoscere il carattere di comune “italianità”, la scintilla scocca poco con la Lyse di Angelica Kasankova, ragazzina clamorosamente in parte, impeccabile, versatile (recita, balla, pattina) ma anche “incredibile” e raggelante. D'altra parte è stata “disegnata” così, nel simbolismo della favola, non è colpa sua.