È ancora senz’altro vero quello che diceva Paolo Cherchi Usai a proposito del rapporto tra video digitale e memoria in Death of Cinema: “una civiltà che è preda dell’incubo della sua memoria visiva non ha più bisogno del cinema. Perchè il cinema è l’arte della distruzione delle immagini in movimento”. La memoria non può che fondarsi sul suo essere selettiva, quindi sulla cancellazione, sulla dimenticanza, sull’oblio. L’idea che tutto possa essere ricordato e quindi registrato – che nulla di tutto quello che accade possa mai scomparire – è l’incubo di una civiltà dove il tempo non esiste. E che quindi oltre a rigettare il passato come luogo della scomparsa, non può che rigettare anche il futuro come luogo della trasformazione.
Cerrar los ojos, l’ultimo straordinario film di Victor Erice, parla di questo e di molte altre cose. È la storia di un attore, Julio Arenas, che nel 1990 durante la lavorazione di un film scompare, lasciando il proprio lavoro a metà. Molti lo credono morto, altri come l’amico e regista Miguel Garay pensano invece che lui abbia voluto far perdere le proprie tracce. La tragedia ritorna come farsa dopo più di vent’anni quando il mistero della scomparsa di Julio Arenas diventa oggetto di uno speciale televisivo che ne indaga la vicenda e la presunta morte. È da lì che si viene a scoprire che Julio in realtà ha perso completamente la memoria (ma lo shock è conseguente o è la causa della sua decisione di tagliare i ponti col mondo?) e che i segni della sua vita passata (oggetti, immagini e naturalmente film e pezzi di film) è come se costituissero una memoria esterna, che sta al di fuori del suo corpo nonostante faccia parte di lui.
Perdendo la memoria smettiamo di essere quello che siamo? O forse c’è qualcosa di noi che è irriducibile alla memoria intesa nel senso di bagaglio di informazioni ed esperienze passate? È quello che si chiede il neurologo di Julio in uno dei dialoghi più densi del film. Ed è quello di cui moltissime famiglie fanno esperienza attraverso l’Alzheimer dei propri cari o in tutte quelle malattie che segnano un declino cognitivo del soggetto. Il problema della memoria non può che allora essere legato a quello dell’identità: cosa succede quando il soggetto sembra essere “azzerrato” dai contenuti della memoria e della propria vita? È ancora lui o è diventato qualcosa di diverso? Che cosa è un soggetto quando il contenuto della sua vita sembra scomparire? E qual è la strategia per rapportarsi a un soggetto che sembra non avere più memoria di sé e del mondo? Andare a scovare gli ultimi rimasugli di memoria che sono rimasti o radicalizzare ancora di più l’eterogeneità di memoria e soggettività (e sguardo)?
Qui il film di Erice intreccia un film nel film, quello appunto del 1990 da cui Julio si è allontanato e che apre Cerrar los ojos. Una storia di un Re triste (la sua dimora si chiama Triste-le-roy ed è una citazione da La muerte y la brújula di Borges) e di una figlia scomparsa in Cina che gli donerebbe uno sguardo che nessuno potrà mai dargli e che a lui manca. L’investigatore interpretato da Julio nel film è quello che allora dovrebbe indagare per ritrovare questo sguardo e che ritornerà solo al termine del film. Molti sono qui i riferimenti biografici e gli intrecci tra realtà e finzione: da un lato il ricordo “finzionale” del film di Julio è parte integrante della sua vita (le foto di scena vengono conservate come se fossero foto reali), ma il film mai concluso ricorda anche biograficamente El embrujo de Shanghai che Victor Erice avrebbe dovuto dirigere e al quale iniziò a lavorare, ma che poi venne girato da Fernando Trueba.
Ma la questione a cui sembra mirare in questo film Erice è molto più che aneddotica e non è certo riducibile al gioco postmoderno dell’indistinzione tra realtà e finzione. Il problema è semmai chiedersi che cosa sia l’esperienza del soggetto e soprattutto quella dello sguardo quando nulla è più riconducibile a un oggetto particolare o a un contenuto sulla pellicola, perché tutto è stato dimenticato. Lo sguardo nella sua forma più pura è senza passato né futuro: è – come diceva Freud della pulsione – una zona di indistinzione tra l’attivo e il passivo. O tra l’oggetto e il soggetto. Non è il guardare qualcosa ma il taglio degli occhi che si chiudono o che vengono svelati fugacemente da un ventaglio orientale. Forse è l’unico modo possibile di guardare in un mondo che ha fatto della memoria assoluta la propria religione, e che è abbagliato dai contenuti dell’immagine senza più riuscire a vedere più nulla. Si tratta allora di guardare con gli occhi chiusi, ed essere finalmente in grado di abitare il miracolo della visione. Quello a cui nessuno, nella prosaicità del digitale, ormai crede più.