Francia, 1967. In un convento di suore la vita di Françoise e Delphine è controllata, decisa, spenta. Ma la sera di un “martedì grasso”, ora di svago e di pazzia, c’è una festa imprecisa da raggiungere, un sogno di maturità da prendere con forza, da desiderare, da conquistare. Françoise vive nell’idea della morte, è un’“emo” prima che esistessero gli “emo”, occhi bistrati e un naso che non si dimentica. Delphine è più assoggettata alle regole della società e del quotidiano, contesta la sua amica, non vede la luce esplosiva in fondo al tunnel. La morsure, opera prima di Romain de Saint-Blanquat, presentato a Locarno e adesso nel programma del Torino Film Festival, è un ibrido difficilmente classificabile, sospeso tra romanzo di formazione e variazione horror, che racconta con i canoni del film gotico il dramma – l’esplosiva gioia e tristezza – delle stazioni di una crescita.
Le regole del film collegiale – sospese tra romanticismo e sopraffazione, tra amicizia e rimpianto – si piegano a quelle dell’horror con strabiliante naturalezza. Il viaggio di Françoise è un percorso di scoperta e rivelazione. All’inizio sembra un’adolescente pazza in cerca di una propria posizione, man mano che il film si costruisce, diventa un’esploratrice di un mondo ancora sconosciuto, inconoscibile, ghiacciato. Françoise ragiona e fa i propri conti con la morte e con il senso del lutto. Prima ancora di scegliere – senza se e senza ma – l’amore e la vicinanza di un vampiro, lei vuole sopravvivere al proprio stesso senso di finitezza, di morte. La morsure, infatti, usa il genere per parlare d’altro. Affronta il magmatico argomento della sofferenza adolescenziale, distillandone le asperità, per sbattere il muso sulle ragioni imprevedibili della sofferenza. È un racconto di formazione travestito da film di genere; e il travestimento è esattamente il modo di imporre l’idea, particolare e sghemba, della costruzione di immagini capaci di definire il film. Il gioco si mostra nella costruzione di un puzzle senza soluzione: chi pensa di essere un vampiro forse non lo è; chi si dichiara vampiro non sa come confermare la propria debolezza, il proprio ruolo; chi ha ruoli educativi – scolastici, familiari – affronta il senso continuo del fallimento rappresentato cinematograficamente da una sorta di invisibilità che assomiglia a un esilio.
La morsure – in un anno di overdose vampiresca in salsa arty, presente ai festival di mezzo mondo – mantiene il pregio dell’inconfondibile onestà. Non si tratta di adattare un momento di crescita a un canone narrativo, tra l’altro seduttore e immancabilmente “fico”. Ma piuttosto il rinnovare il canone, le immagini e le parole d’ordine che le definiscono. Accettando che, almeno in parte, nel desiderio degli adolescenti resti ben presente l’idea del sangue, dell’autodeterminazione, del sacrificio. E, allo stesso tempo, credere alla voglia di garantire saldamente il significato di un’idea squilibrata – di una gioia – marinata in un senso di incertezza. La morsure è un film che urla parole d’ordine lontane dalla pacificazione borghese di mezza età. È, ostentatamente, un film ribelle, arrabbiato, a suo modo feroce. È un film che urla il vampirismo della società adulta rispetto a quello – decisamente dilettantesco – di una gioventù alla ricerca di una bussola. È un ragionamento in cui la visione del futuro, con i suoi fantasmi e i suoi lutti, viene consegnata (finalmente?) a una generazione in grado di stupirci, anche a costo di succhiarci il sangue.