Di incipit memorabili De Palma ne ha girati tanti, ma quello di Carlito’s Way resta probabilmente il più potente della sua filmografia: un unico, maestoso, complesso movimento di macchina (in ralenti e in bianco e nero) che “teorizza” la nascita del film come un tormentato passaggio dall’azione (New York, anni Settanta) alla confessione – dall’oggettiva sul volto di Carlito alla soggettiva, sulla quale il “brigante” portoricano prende parola («Somebody's pullin' me close to the ground. I can sense, but I can't see»). La storia che segue – due ore abbondanti di film – le racconta dunque Carlito («Last of the Mo-Ricans») mentre muore, per dire come muore un uomo che ha cercato, dopo cinque anni di galera, di cambiare la propria vita, senza riuscirci. Perché se sei un brigante, di nome e di fatto, il passato, prima o poi, tornerà a cacciarti per riportati a te stesso, anche se hai tentato di aggiungere un po’ di good alla tua fama di bad guy (Carlito, lo sa, sta giocando a fare il Bogart di Casablanca). Così, trascinato da un autobiografismo stanco e dolente (come di chi scopre di voler dire la verità), il film smette in fretta di essere un gangster movie per diventare un mélo via via sempre più claustrofobico e straziante, che esplode nell’abbraccio finale tra Carlito e Gail (sulle musiche, bellissime di Patrick Doyle). Nel quale però, a ben vedere, il brigante sta dicendo addio soprattutto a se stesso, a quell’altro uomo che ha cercato di diventare, al Paradiso artificiale in cui ha sognato di rifugiarsi. Dove adesso, finalmente, la soggettiva interrotta dal racconto di come muore un uomo può entrare, per restarci.