La base è un grossolano intreccio di spy-story, science-fiction, horror e thriller. Il risultato è una “follia”, un “delirio”, per usare due delle definizioni che negli anni di questo film hanno sottolineato la dimensione eccessiva, il suo essere oltre ogni misura. Fury è soprattutto macelleria di gran classe: un sacco di sangue, uccisioni a colpi d’arma da fuoco, investimenti, suicidi e l’esplosione finale del cattivissimo e nerovestito villain, sigillo su un’opera che sembra voler fare a pezzi tutto il cinema e l’immaginario di quegli anni, il divo popolare Kirk Douglas e l’attore/regista intellettuale John Cassavetes. Non c’è alcuna empatia nei confronti dei personaggi (come sempre, però, intrappolati in un congegno spudoratamente melodrammatico): qui da amare c’è solo il regista, che, con la complicità di una ipnotica partitura di John Williams, orchestra una sequela impressionante di “pezzi di bravura”. Il romanzo di John Farris (anche sceneggiatore) permette a De Palma di procedere per macro-sequenze quasi indipendenti e il potere della sua protagonista – una nuova Carrie – di sovrapporre i piani temporali, di far scaturire immagini su immagini senza bisogno di dispositivi. Più che un film sul cinema, una mise en abyme del proprio cinema, vertiginosa concentrazione di ricorrenze e volti noti. Un divertissement crudele e il preludio ai capolavori dei primi anni Ottanta.