1990, un anno non casuale. De Palma e il romanzo chiave dell’edonismo anni ’80 s’incontrano al passaggio di due decenni. Il trionfo della morte, titolo che nel ’97 De Lillo darà al primo capitolo di Underworld, è già nell’incipit di questo film: un piano sequenza che segue, accompagna, guida uno scrittore ubriaco marcio che si appresta a entrare nella sala dove riceverà il Pulitzer. Il movimento della macchina da presa piega lo spazio e il tempo, lo spostamento è frutto di un'inerzia, è quasi ipnotico, come se i personaggi fossero guidati da una forza magnetica. Dopo aver sperimentato il piacere di espiare le colpe nella ricchezza, l'America si prepara all’illusione della salvezza e alla fine della Storia. Intreccio, personaggi, moralismo e putridume newyorchese – e la geniale rappresentazione di un Manhattan bianca pre-gentrification ossessionata dall’invasione dei neri – vengono direttamente da Tom Wolfe. Tutto di De Palma, invece, è quel movimento iniziale, che ripreso alla fine conduce sul palcoscenico pubblico di una città capace di celebrare vergognosamente tutti, colpevoli, condannati, eroi, puttane, mascalzoni, e soprattutto se stessa. A giudicare da come sarebbe andato il resto del decennio, che a un certo punto scivolò pure su una macchia di sperma, e da come si sarebbe aperto il secolo successivo, Il falò delle vanità sembra davvero la corsa sfrenata prima dello schianto.