Lo vedi lì, sul grande schermo, elegante, colorato, fluido, meravigliosamente formalista, e lì e solo lì sai di poterne cogliere la bellezza e l’unicità: il cinema di Brian De Palma è il cinema come abbiamo imparato ad amarlo, spettacolo in movimento di forme, suoni e colori, lingua modernista immediata e pop, riflessione concettuale ed esposizione oscena del corpo. È show, e insieme arte, ricordo, rapimento, passione, legame, cazzeggi.
De Palma è Hitchcock ripreso e fatto esplodere, è la New Hollywood del regista-creatore che invoca la libertà di pensare, scrivere, dirigere, e poi fallire; è il narratore di storie, l’inventore di visioni complesse ed elaborate, l’insicuro che fa visita alle sale dove proiettano i suoi film e il matto che sa di avere ragione, che invita Orson Welles a ricordarsi le battute e fa richiamare sul sei l’amico sceneggiatore licenziato dalla produzione.
A vederlo insieme agli amici con cui cominciò a fare cinema per poi conquistare Hollywood – Martin, Steven, George e Francis, tutti e cinque ritratti in una famosa foto del ’94 – ci si accorge di come, forse, fra tutti quei mostri De Palma sia rimasto in qualche modo un outsider. Un maestro, certo, un mito per almeno due generazioni di spettatori (chissà se gli studenti che frequentano oggi i corsi di cinema vadano ancora pazzi per, che so, Le due sorelle, per l’inizio di Vestito per uccidere, il finale di Blow-Out, Melanie Griffith in Omicidio a luci rosse o Pacino in Carlito’s Way), ma anche un regista senza Palma d’oro, senza Leone e senza Oscar, con uno straordinario consenso cinefilo ma qualche critica col ditino alzato alla gratuità del suo cinema; troppo legato al genere e alla serie B, troppo ossessionato dal puro e semplice piacere di esporre il corpo, la carne, il sangue, il sesso, e ancora troppo innamorato dei movimenti di macchina e del loro incedere lento e rimarcato, dei piani sequenza, dei plongée, delle panoramiche a schiaffo, degli split screen, della profondità di campo e della continua ed esasperata stilizzazione dello spazio e del tempo, da diventare nell’immaginario collettivo qualcosa in più di un grande costruttore di visioni e di meccanismi spettacolari.
Ovviamente non è così, ovviamente almeno per noi europei De Palma è sempre stato uno dei massimi manipolatori del desiderio e dell’onanismo spettatoriale, imbevuto di Hitchcock, certo, ma anche di controcultura anni ’60, di nouvelle vague, di Broadway e di cinema classico, di delirio creativo da New Hollywood e di gigantismo produttivo, al netto dei capolavori e dei passi falsi (ciascuno ha il suo, e solo De Palma può parlare dei suoi film come di tanti figli tirati su alla stessa maniera) e del peso che già oggi gli si può dare nella storia del cinema.
Noah Baumabch e Jake Paltrow, senza all’apparenza sforzarsi troppo, lasciano che sia lo stesso De Palma a ripensare al suo cinema; montano i suoi racconti, i suoi aneddoti e le sue rapide riflessioni sul rapporto con l’immagine e lo spettatore, e lasciano fuori domande e commenti.
Giustamente il film si chiama De Palma, niente di più, e dentro ci sono i suoi film, uno per uno, dal primo all’ultimo, e la sua personalità buffa, indipendente e appassionata, con gli occhi ancora da ragazzino e un umorismo beffardo che fanno intendere il cinismo e la lucidità di un artistaartigiano che ha dato del tu a Hollywood e non ha fatto altro che dare forma e colore a un’immaginazione senza freni.
Non un genio, forse, e nemmeno un cantore del lato oscuro dell’uomo o della società, ma uno spettatore e un uomo di cinema che ha saputo srotolare il proprio immaginario e trasformarlo in una parata solenne, in una mascherata tragica. In nome del cinema per il cinema, come un tempo si sarebbe detto dell’art pour l’art, con l’umiltà di ammettere che la sua stagione è passata e che dunque era questo il momento giusto per guardarsi indietro e cominciare a raccontare.