Mentre Michail Gorbačëv era tenuto ostaggio nella dacia presidenziale in Crimea e la gente si riversava nelle piazze di tutta l’Unione Sovietica, i golpisti dell’area conservatrice del Partito comunista, autori del colpo di stato, ordinavano di oscurare le televisioni e – dopo un breve comunicato – di trasmettere per radio, ininterrottamente, Il lago dei cigni di Čajkovskij.
Nei giorni compresi fra il 19 e il 24 agosto del 1991 l’Unione Sovietica stava vivendo gli ultimi istanti della propria storia e di lì a poco sarebbe passata per quella che oggi viene comunemente definita la dissoluzione dell'Urss. In Russia, che si apprestava a diventare una repubblica e a perdere il controllo sugli altri stati dell’Unione, il popolo – confuso e in parte diviso – reagì invadendo le piazze delle grandi città e costruendo barricate, quartiere per quartiere, mentre l’esercito occupava lentamente le strade.
Il documentario di Sergei Loznitsa recupera dagli archivi il materiale video che alcuni operatori dell’epoca girarono per le strade di Mosca e Leningrado in quei giorni cruciali della fine dell’estate del ‘91, e mette insieme un racconto che rinuncia sin da subito a fornire risposte, spiegazioni o analisi del momento storico e priva lo spettatore di qualsiasi spunto revisionista o considerazione politica sul tema. Piuttosto il regista ucraino – all’epoca studente presso l’Università cinematografica di Mosca – cala il pubblico in quella stessa incertezza, in quello stesso timore e nel medesimo sgomento che attraversavano le menti dei cittadini russi.
Armonizzate da un bianco e nero limpido, le immagini che Loznitsa affastella, costruiscono prima di tutto una galleria di volti, facce, sguardi che sono testimoni e insieme vittime degli eventi. Quello che ascoltiamo, che osserviamo e che scrutiamo non serve a chiarire l’accaduto. Il regista ci chiede di accettare che il cinema – anche quello documentario, anche quello in presa diretta – diventi un dispositivo parziale e non riesca a raccontare il tutto. E per questo si limita a mostrare, a osservare e se necessario a lasciarci confondere. Il montaggio, che affianca i diversi spezzoni del girato inframezzando i salti fra una pellicola e l’altra con un fondo nero sul quale echeggiano le note del Lago dei cigni, asseconda tale modello. Ne risulta una testimonianza storica anti narrativa e frammentaria, laddove il modello concettuale godardiano di racconto della storia (ideologicamente è chiaro, non in termini espositivi), emerge in tutta la sua forza espressiva.
Se dobbiamo arrenderci al fatto che non si possa costruire una storia del cinema (e comunque non una sola) utilizzando soltanto le immagini, è altrettanto vero che non si può raccontare la Storia per mezzo del medium cinematografico. Loznitsa, che si concentra su eventi recenti ampiamente documentati, chiede all’immagine di abdicare, di non cadere nella tentazione di diventare rivelatrice o di farsi strumento dialettico, e la invita invece a essere semplicemente frammento. Un frammento che non può avere la pretesa di raccontare “L’evento” ma solo di esserne parte, di fare della propria parzialità la forza del messaggio che veicola. E cioè che in assenza di racconto e in assenza di Storia esistono comunque tutti i racconti e tutte le storie possibili. Che stanno lì, negli sguardi di quei cittadini che la macchina da presa non può descrivere e non può nemmeno condividere, ma si limita, sommessamente, a ricambiare.