Rabin è stato ucciso e con lui è stata assassinata anche la pace (un’ipotesi di pace, un percorso, un’idea di confronto alla pari fra Israele e Palestina). Peres, che emerge sullo schermo da uno sfondo nero, lo dice chiaramente. E Amos Gitai sceglie di cominciare da lui: non è storia, non è (solo) documento, ciò che vuole raccontare è il presente, frutto di un sogno spezzato.
Dal nero, emerge anche il luogo dell’assassinio, visto dall’alto. Ci avviciniamo lentamente, mentre la musica crea un’atmosfera angosciante e solenne, ritrovando poco a poco quel lontano vicinissimo 4 novembre 1995. La piazza si riempie, Rabin è commosso dalla folla scesa in campo per appoggiare le sue scelte, per chiedere la pace. Immagini di repertorio. Volti. Frammenti. E gli spari, all’improvviso
Rabin, the Last Day parte da qui, da una cine-congiunzione tra il repertorio e la ricostruzione, che ci scaraventa dentro la realtà (l’auto che traporta Rabin in ospedale).
Il film di Gitai è inchiesta ed evocazione, è memoria e riflessione, è la “Commissione Shamgar” come avrebbe dovuto essere (non solo la ricerca di chi ha sbagliato, ma anche un’indagine sull’humus politico e religioso che ha armato l’assassino) ed è anche un forte e chiaro atto d’accusa, in cui Netanyahu è il controcampo della folla che grida “a morte Rabin”, “Rabin traditore”, “Rabin assassino” (esplicito e magnifico, a questo proposito, anche il piano sequenza finale, che cammina accanto alla storia di Israele per approdare a un manifesto elettorale).
Gitai assicura che “il film è basato interamente su documenti”, che “ogni singola parola pronunciata” si trova nelle carte consultate, per questo il risultato finale è ancora più inquietante e importante.
C’è l’inchiesta che rivela le incredibili falle nel sistema di sicurezza, ma evita accuratamente di affrontare il contesto storico-ideologico (il sionismo, la storia delle colonie) e di ragionare su chi e cosa può aver influenzato l’assassino. Ci sono sequenze che mostrano e raccontano senza dover dire o spiegare il fervore politico-religioso dei coloni e i folli ragionamenti degli estremisti contrari agli accordi di Oslo. C’è un rito arcaico che affonda le sue radici nel Talmud, una maledizione che condanna a morte colui che la subisce, il traditore del suo popolo (usata solo in un’altra occasione contro Trotsky!). C’è soprattutto un intreccio inestricabile e potente di materiali ritrovati e ricreati, di parole che sono già storia e altre che Gitai trasforma in cinema e verità (ricostruita), di immagini “reali” e “realtà” mediata dal linguaggio cinematografico.
Come dice Gitai, il film nasce da un bisogno del “cittadino” prima ancora che del regista. Ma del regista Gitai prende tutto il meglio, con un equilibrio visto raramente nel suo cinema (che a volte porta all’estremo la sua idea di messinscena rischiando di rimanerne prigioniero), tra montaggio critico e sapiente del materiale video e piani sequenza che ti fanno aderire alla materia (le idee, le parole, i volti) in profondità, in un dialogo serrato fra il passato e il presente, la realtà e la sua verità nascosta o evidente (qualche risposta, ma soprattutto tante domande), la testimonianza storica e l’eterno dilemma ideale che divide due popoli e due modi di interpretare la stessa storia.
Grande film.