Ci siamo presi del tempo, quello che serve a far sedimentare la materia di un film e a verificarne, se non l'effettiva "tenuta", le qualità oggettive, per scrivere di Un monstruo de mil cabezas, un lusso che non sempre ci si può concedere, nell'accalcarsi dei titoli durante un festival (verrebbe da citare i tori ammassati di Boi Neon, se non fosse che poi manca il tempo appunto, e forse la voglia, di parlarne).
Al quarto giorno di questa Venezia 72 si potrebbero tirare in ballo anche solo le qualità relative, visto che questo ultimo film di Rodrigo Plà, scelto per aprire Orizzonti, è tra le cose più interessanti viste fino ad ora; nel frattempo molti hanno attaccato o anche solo sminuito il film brandendo come parametro di valutazione l'opera prima di Plà, La Zona, escludendo dalla lettura di questo suo nuovo lavoro almeno due titoli intermedi, e magari sottovalutando il fatto che già La demora, che nel 2012 fu presentato alla Berlinale e divenne un caso da festival in ambito latinoamericano, finendo nella shortlist messicana per gli Oscar, esplorasse tematiche tangenti o complementari a quelle di questo nuovo film, che sono, in fondo, tangenti e complementari anche quelle del suo primo, fortunato, lungometraggio: malattia, segregazione, privilegi elitari e pregiudizi razziali.
Ovviamente non si tratta solo di rilevare una contiguità contenutistica e quindi in qualche misura suggerire la traccia di un percorso autoriale. Se La demora era una partitura a due voci che seguiva il rapporto tra un padre e una figlia corroso dalla malattia, Un monstruo, che è tratto da un romanzo della compagna di Plà, Laura Santullo, si concentra su un personaggio e la sua ossessione: a Sonia Bonet (Jana Raluy, volto notissimo della TV messicana) interessa che l'assicurazione cui ha versato soldi per una vita riconosca al marito, malato terminale di cancro, un trattamento sperimentale i cui benefici le sono stati presentati oltre confine, a Huston; ma la macchina burocratica messicana non consente l'uso di quei farmaci, non senza le deroghe dei referenti medici, e questi non sembrano esattamente disposti a prestare ascolto: di fronte a questa rete respingente, per farsi ascoltare, Sonia sceglie rimedi estremi, trascinando con sé, involontariamente, il figlio adolescente.
Quello che era cominciato con tutti i parametri del dramma di denuncia sociale diventa d'un tratto un thriller psicologico, non privo di momenti di humour nero, talvolta nerissimo. Plà semina in anticipo, mantenendo la giusta distanza, focale e psicologica, i tratti dell'esasperazione indotta nella protagonista: Jana Raluy offre all'obiettivo un volto segnato, ma la voce è sempre un passo di qua del rigo, non si fa tentare dalla scelta facile della reazione isterica. Soprattutto, con la scelta di focali lunghe, del fuori fuoco e di un découpage selettivo Plà crea un senso di temporalità differenziata: il tempo adrenalinico, vissuto in corsa, da Sonia, che cozza, spesso nella medesima inquadratura, contro il tempo del lavoro o dello svago dei burocrati, degli impiegati e dei medici che la donna si trova a dover affrontare: un senso della durata molto diverso, il confronto viene facile perché il film era proiettato nella stessa giornata, rispetto a El desconocido di Dani de la Torre (Giornate degli Autori), che è invece tutto dilatato, secondo un procedimento tipicamente spettacolare.
E, a voler approfittare di un approccio comparativo, sarà opportuno evidenziare che entrambi i film hanno come sottotesto un atteggiamento critico verso gli esiti di un certo capitalismo: ma, se ne El desconocido la vendita spregiudicata di derivati è poco più di un macguffin (peraltro abbondantemente posposto) per una storia iperbolica, girata secondo i protocolli del genere, in Un monstruo la richiesta di un giusto trattamento sanitario scoperchia una realtà più estesa e pervasiva di cattive condotte, di malasanità, diremmo in Italia ("se opera a muertos para ganar un dinero extra", does it ring a bell?): forse a Sonia non riuscirà nemmeno di portarne le prove all'attenzione pubblica. A noi spettatori non resta che essere testimoni, miopi e parziali, convocati a processo, a porte aperte, nell'ultima inquadratura, insieme a quelli che, in voce-off hanno accompagnato (interrogandosi sulla propria negligenza) il giorno di (stra)ordinaria follia di una donna che ha tentato il tutto per tutto.