Il cinema di genere, ok, va bene. Il western - anzi no, meglio, “il ritorno del western” - pure. Va bene, anzi benissimo, anche il bisogno sempre nuovo, sempre vitale, di classicismo, di storie da narrare, di cinema dal grande respiro. Tutto ok. Tutto perfetto e bello da ritrovare in un festival. Almeno fino a quando ti imbatti in un film come Brimstone (che il suo regista, il non troppo noto olandese Martin Koolhoven, firma addirittura con il genitivo sassone: “Martin Koolhoven’s Brimstone”, come recita il titolone in apertura).
Un film che se non fosse montato a ritroso, più epilogo, con riferimenti ai libri più noti della Bibbia (Apocalisse, Genesi, Esodo); se non volesse a tutti i costi rifare-citare-omaggiare-riprendere-reinventare La morte corre sul fiume, con tanto di predicatore folle e demoniaco, donne in fuga con fucili imbracciati in posa classica (ma manca l’allucinata canzoncina Leaning! Leaning! On the everlasting arms!, sostituita da un canto di Chiesa...); se non si prendesse tremendamente sul serio mescolando varie e confuse idee sul fondamentalismo cristiano, prendendo un po’ dal cattolicesimo e un po’ dal calvinismo, farneticando sugli immigrati olandesi in quanto popolo eletto nel west di metà XIX secolo, affastellando punizioni corporali, villain che vanno a fuoco guardando negli occhi le loro prede innocenti, emissari in terra del Dio incazzato del Vecchio testamento, o al massimo sacrilega imitazione del Max Cady di Cape Fear; se non fosse, ancora, che lo scorso anno è uscito The Witch (e già questo di per sé potrebbe bastare) a parlarci di religiosità americana, pulsione al male, corruzione e colpa; se non fosse, insomma, che per tutte queste ragioni Brimstone è decisamente un pastrocchio narrativo, religioso e ideologico, un filmone con due attori di peso nemmeno così pessimi (Dakota Fanning e Guy Pierce) che proprio in quanto pastrocchio impegnato viene accettato in concorso (salvo essere prontamente demolito), non sarebbe nemmeno un western così fastidioso o dannoso. Sarebbe un semplice western di fronte a cui rimanere indifferenti.
Alcuni momenti della guerra personale fra un pastore folle che dice di agire nel nome di Dio e la figlia vittima della sua follia – figlia che prima assiste alle violenze sulla madre, poi viene a sua volta violentata, poi fugge e diventata prostituta, poi finisce per essere ritrovata dal padre, salvo fuggire ancora, rifarsi una vita, avere una bambina, ma dover poi fuggire ancora, pareggiando i conti con il suo persecutore e Dio ma dimenticandosi del destino beffardo e della giustizia umana, che sostituisce nella sua assurdità quella religiosa – alcuni momenti, dicevamo, di questo folle e gigantesco casino non sarebbero nemmeno da buttare (ad esempio, tutta la parte girata nel bordello, o in generale una messinscena tutto sommato controllata e senza troppi vezzi stilistici).
Il problema è l’insieme, la struttura avanti-indietro-e-poi-ancora-avanti-per-la-chiosa, l’incredibile mezz’ora finale che punisce il punibile e rilancia la trama come un contagio malevole e mortale. Di per sé, Brimstone poteva anche essere un western solido e magari non troppo di ritorno. Un western con una protagonista forte e coraggiosa messa di fronte a un sadico figlio di puttana come la tradizione di Hollywood ne ha creati a pacchi.
Il problema è quel genitivo sassone, “Martin Koolhoven’s..:”, l’autorialità che viene addirittura prima del titolo, quando nel western, se proprio l’autore deve esistere, al massimo deve nascondersi nei dettagli.