È noto che il cinema di Stéphane Brizé sia un cinema d’attori. Perciò, per alcuni irriducibili, “vecchio stile”. È un po’ meno noto invece che questo stesso cinema, così attoriale e così irriducibilmente d’attori, acquisti una posizione d’immagini e anche morale proprio grazie agli attori. Perché è a partire dall’attore che Brizé cerca il suo punto di vista, suo cioè in quanto autore. Non è scontato. E non tutti vi riescono, chi sopraffatto dal peso della star, chi semplicemente inadeguato a dirigerlo, l’attore.
Nei film di questo regista incorrotto la distanza tra sguardo e attore è la giusta distanza che intercorre tra realtà e sua messa in scena. Nell’attore Brizé crede a tal punto che sembra conferirgli la regia. Ossia il peso delle misure da prendere, delle proporzioni da tenere. L’attore è nodo nevralgico ma è anche, e prima di ogni cosa, strumento di visione. Nel cinema di Stéphane Brizé l’attore è chiamato a costruire la scena, a montarla, e darle carattere e movimento. Un gesto sbagliato e il film tutto ne soffre, in quanto “il cinema di Brizé sorprende sempre per quello che si potrebbe definire una specie di accordo fotogenico (nel senso che i registi francesi degli anni Venti attribuivano al termine) tra dispositivo e realtà, accordo perfetto (anche in questo caso, l’unico possibile) che traduce il tempo delle cose e degli uomini in intensità drammatica, senza mai smarrirlo, per difetto, nella pura descrizione, e senza mai deformarlo, per eccesso, nella dimostrazione di qualcosa” (Luca Malavasi).
Vincent Lindon, che della trilogia del lavoro di Brizé – La legge del mercato, In guerra e Un autre monde – è protagonista assoluto, è dunque l’interprete non in quanto attore per convenzione, ma come tramite. Allo spettatore allora non resta che cercare una ragione, la ragione, non tanto nel film, quanto nel suo attore. E qui, in questo film che è l’Insider di Brizé, dove ancora una volta il soggetto è vittima dei suoi sentimenti perché il cinema di Brizé, parafrasando un dialogo di Un autre monde, «finisce per esservi impaludato, a scapito della spietata lucidità sulla realtà», è proprio Lindon il motivo e l’impulso. Vedere Un autre monde significa osservare il suo attore, crederlo, pensarlo. Tra spettatore e attore nasce una relazione: il film prende forma sull’attore, e noi, che guardiamo, più che immedesimarci esercitiamo un amore.
L’altro mondo possibile, dunque, è quello che sceglie il manager Philippe Lemesle: è il mondo del suo attore, Vincent Lindon, il più grande attore contemporaneo, perché è lì, nell’attore, nel suo sottrarsi e nel suo fuggire (degli occhi), nella sua carenza di cinismo, che Brizé e Un autre monde conquistano la verità. Nel cinema di Stéphane Brizé l’attore non è colui che dice la battuta, è piuttosto il suo colore, la concretizzazione di un’idea, il volume di un pensiero, di un’attitudine, di una condizione. In Un autre monde, che è un superlativo film manniano, ovvero del Mann più umano e umanista, tra autore, attore e spettatore non c’è soluzione di continuità; quando finisce, il film, rimane la memoria di un accordo impensabile eppure fattivo, tutt’altro che un compromesso, anzi, direi una celebrazione, principalmente la celebrazione di una fede (nel cinema, nell’attore).