Concorso

Leave No Traces di Jan P. Matuszyński

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Giugno 1983. La morte, a diciannove anni, di Grzegorz Przemyk (Mateusz Górski), figlio della poetessa e attivista Barbara Sadowska (Sandra Korzeniak), ucciso a calci nello stomaco da membri della milizia civica, magari a noi dice poco, ma è una data spartiacque per la storia recente della Polonia: il paese proprio in quel momento stava uscendo da un biennio di applicazione della legge marziale, e vedeva comunque crescere l’opposizione di Solidarność, che era stata in prima istanza proprio una delle ragioni dell’applicazione delle misure speciali.

Il giovane studente va con degli amici verso la piazza del Castello di Varsavia, per festeggiare la maturità. Grzegorz, fermato dai miliziani, rifiuta di esibire il documento di identità, ricordando loro che la legge marziale è sospesa. Viene arrestato e portato in centrale, insieme all’amico Jurek (Tomasz Ziętek). Quest’ultimo sarà il testimone del pestaggio condotto dai miliziani con un’indicazione precisa: colpire l’addome “per non lasciare traccia”.

Leave No Trace di Jan P. Matuszyński, tratto dal libro omonimo di Cezary Łazarewicz, è una restituzione accorata di questo incidente e delle conseguenti azioni di depistaggio da parte delle autorità ministeriali, che temendo conseguenze ingestibili cercano di cancellare le tracce delle azioni dei militari, e provano a scaricare la responsabilità della morte di Grzegorz sugli infermieri che lo soccorsero dopo le percosse; per molte ragioni non è stato possibile che fosse anche una restituzione accurata: alcuni personaggi sono stati soppressi o accorpati per ragioni drammaturgiche, ad alcuni, tra i quali lo stesso Jurek, pilastro minuto ma robustissimo della narrazione, è stato cambiato il nome (il vero nome è Cezary); tanti personaggi di questa vicenda sono morti, ma molti sono ancora vivi.

Cominciamo da una traccia, appunto, da un indizio di lettura, che però arriva verso il finale del film. Il processo che deve attribuire la responsabilità dell’omicidio di Grzegorz Przemyk è nel vivo; una nuova procuratrice, Wiesława Bardonowa (Aleksandra Konieczna), che è stata nominata tra le figure vicine al regime dei militari che governano il paese, sostituendo una collega più prossima all’opposizione, sta incalzando Jurek, cerca di destabilizzarlo insistendo su dettagli insignificanti, perfino sulla tipologia e la taglia dei bicchieri con cui i ragazzi avevano consumato il vino prima di uscire in piazza. Al giovane è chiaro fin dall’inizio il tentativo di depistaggio, la contraffazione dei fatti da parte delle autorità, ma la stanchezza è tanta, i suoi genitori hanno ceduto alle pressioni e l’hanno in sostanza venduto per non perdere il lavoro, e perfino la madre di Grzegorz pare aver perso ogni speranza, lasciandolo da solo a testimoniare di fronte al tribunale.

Eppure il giovane trova la forza per evitare le provocazioni di questa procuratrice, che è letteralmente marionetta e maschera del potere, per sovrastare la sua voce, e comincia a indicare due persone in particolare al banco degli imputati, ripetendo instancabilmente di riconoscerle come gli autori del pestaggio, aumentando con fermezza il volume della voce: esattamente come fa la musica che accompagna la scena, il Lento - Sostenuto tranquillo ma cantabile della Sinfonia n.3, “Dei canti lamentosi”, di Henryk Górecki. È un canone in La maggiore che apre un movimento della durata di più di  26 minuti, un brano che pochi anni prima degli eventi narrati aveva fatto storcere il naso alla critica musicale d’avanguardia, in occidente più ancora che in Polonia, ma che proprio grazie a questa struttura ostinata e monolitica si è aperto nel corso dei decenni un varco nella cultura e nella memoria collettiva, lasciando una traccia duratura, significativa anche di quale fosse la consapevolezza e l’appoggio che Solidarność raccoglieva in maniera crescente anche in occidente: Górecki, compositore rispettato, non ha mai nascosto il proprio appoggio per l’opposizione al regime. Senza dimenticare che, a proposito di lasciare tracce, il movimento successivo della sinfonia basa il suo testo su una preghiera graffita da una prigioniera diciottenne sul muro di una prigione, nel 1944.

Torniamo in aula, però, giusto per ricordare che il tribunale assolve i militari e condanna gli infermieri. Se l’imperativo dei miliziani era quello di non lasciare traccia, dunque, quello che si pone Matuszyński a fronte di questa assoluzione è di lasciarne una, anche perché in sostanza le riaperture del caso nei decenni successivi sono state fatte decadere, e molti dei responsabili hanno vissuto tranquillamente anche dopo la caduta del regime. E allora spetta al cinema lasciare una nuova traccia, un cinema “dossier” se si vuole, didascalico, con una ricostruzione mimetica degli ambienti, del costume, dei volti, e con contrasti voluti, marcati tra la naturalezza di alcune performance e la caricaturalità implosa di altre (Sandra Korzeniak è una madre raggomitolata dal dolore, la voce meccanica, quasi disanimata; Aleksandra Konieczna una pm irresistibilmente odiosa, prona al Potere e pronta a decomporsi).

Non avrà la finezza di un Pollack (a cui comunque sembra guardare) o la solidità di un Wajda, ma Leave No Trace, smentendo il proprio titolo, una traccia la lascia, anche proprio in virtù di questo suo essere monolitico come il brano di Górecki. Gutta cavat lapidem.

D’altronde non cerchiamo lontano: Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, tre anni fa contribuì a riaprire il dibattito sul caso Cucchi. Certo, a ben guardare, Leave No Trace, racconta un caso quasi complementare a quello di Stefano Cucchi (il generale Jaruzelski affermò che Przemyk era un drogato), un caso in cui le conseguenze della violenza di Stato non sono sulla pelle, ma sugli organi interni, un corpo che diviene suo malgrado metafora dello Stato: in superficie ancora sano, ma irrimediabilmente, mortalmente lacerato sotto la pelle. Chissà cosa si nasconde oggi, sotto la pelle dello Stato, e quanto bisogno c’è di film come questo.