Detours (Obkhodniye puti) non è un film facile. È una sorta di esperienza alla quale bisogna accettare di abbandonarsi accogliendone la sfida, quella di farsi trascinare in quello che Yuri Afanasiev definisce “un paese con un passato imprevedibile”. Proprio questo passato imprevedibile sembra essere infatti la dimensione in cui prende corpo la sottile linea narrativa che regge il film. Nella Mosca di oggi un giovane spacciatore si muove incontrando clienti, consegnando le dosi, facendo affari tra gli spazi immensi e apparentemente immobili della periferia postsovietica e gli spazi virtuali del web, dove gli scambi e gli accordi prendono forma ancora prima di concretizzarsi tra gli edifici mastodontici, la vastità delle piazze, gli alberi di parchi disegnati a tavolino, i binari abbandonati che non portano più da nessuna parte.
Tutto è grande in Detours, tranne gli individui che emergono silenziosi sul fondo di inquadrature larghe e immobili che improvvisamente, grazie a queste figurine senza identità, si animano e si dinamizzano. C’è vita dunque tra quelle costruzioni urbane che manifestano nella loro grandeur il dispotismo programmatico al quale i situazionisti reagivano, per l’appunto, assecondando il détournement, la deviazione. Si muovono per la città i “personaggini” messi dentro la scena da Ekaterina Selenkina e noi con loro, seguendo Denis in una pratica che non è flânerie, si badi bene: Denis non vaga, non passeggia, non osserva né gode delle architetture che determinano lo spazio attorno a lui.
Al contrario questi personaggi in qualche modo agiscono, anche senza fare nulla, vivono la quotidianità deviando proprio da ciò che sembra predisposto dallo spazio. Uno spazio ultrapensato e ultracostruito, ma non per loro che oggi lo abitano. Perdono tempo, forse, ma non si perdono in esso, piuttosto lo ridefiniscono attraverso la loro minuscola presenza. Così lo spazio che sembra ignorarli finisce in qualche modo per cedere alla loro presenza e implodere, moltiplicandosi. Con le linee e i livelli che si sovrappongono, l’immagine si frammenta sostituendo alla monolitica grandezza ad uso collettivo l’imprevedibilità di un’azione individuale istintiva e non meditata, un’azione che si esprime – senza dire nulla – in un tempo che diventa indecifrabile, incommensurabile.
Denis (ma forse anche gli altri che casualmente incontra o gli girano intorno o incrocia e dei quali non sappiamo nulla) non esplora, non va a zonzo ma va, piuttosto, incontro a quello che Debord definiva un “appuntamento possibile”. Così, incauto e inconsapevole, diventa soggetto dello spaesamento di cui noi siamo spettatori e in cui ci troviamo ipnoticamente trascinati, tanto da smettere presto di domandarci chi dovrà incontrare e a quale scopo.
Osserviamo Denis fare le consegne, farsi il bagno, uscire di casa, sfuggire a un pestaggio, cercare di riconoscere i volti dei netturbini in una mappa di Google che si concentra – una volta di più – su qualcosa per cui non è stata pensata. Intorno a lui altri ragazzi si baciano, un uomo prende un panino a un chiosco in una pausa di lavoro, i treni partono, un anziano nutre gli uccelli al parco, una donna manifesta… Attraverso i movimenti di Denis li incrociamo senza mai conoscerli: nessuno di loro ha volto, né storia, né identità. Non c’è senso della collettività, non c’è potere, non c’è posizione ma forse in quella ignara e semplice deriva quotidiana un piccolo gesto di libera appropriazione di ciò che non è fatto per loro e che, probabilmente, non è fatto più per nessuno. Uno spazio immobile eppure esploso come esplosa è la società di cui Detours non racconta nulla, pur dicendo molto.