Lorenzo Vigas è uno di quegli autori attesi al varco con l’opera nuova, dopo un esito, con Ti guardo, che nel 2015 vinse il Leone d’oro, da molte parti giudicato immeritato: nel suo caso si tratta dell’opera seconda (se contiamo solo i lungometraggi). È un meccanismo crudele che si sfoga nei festival, e ovviamente si accanisce sugli autori “da festival”, quelli che in inglese passano sotto l’etichetta “arthouse” e, qui a Venezia 78, colpisce, oltre al regista di La caja, l’ucraino Vasyanovych, in concorso con Reflection dopo aver vinto Orizzonti due anni fa. Ma restiamo su Vigas. Ti guardo era ambientato negli spazi a lui ben cogniti di Caracas, anche se il Messico era già presente, nella cordata produttiva e, soprattutto, nella sceneggiatura, scritta a quattro mani con Guillermo Arriaga. Questa volta il film è scritto in collaborazione con Paula Markovitch, che è argentina, ma il Messico, un Messico desertico per certi versi atipico, entra, con potenza, nel lavoro sull’immagine, oltre che nella storia.
Tonfi ritmici, i piedi di un ragazzino sul pavimento del cesso di un pullman. Tonfi rispondono sulla porta di quel bagno, qualcuno vuole entrare. Tra poco saranno arrivati. Hatzín (Hatzín Navarrete) è un adolescente rimasto solo, cresciuto dalla nonna diabetica a Città del Messico, e sta andando, da solo, per un’incombenza più grande di lui, nello stato di Chihuahua, nel nord. La “caja” del titolo è la cassetta di zinco coi resti di suo padre Esteban, che gli viene consegnata, previa esibizione della delega, della carta di identità, e verifiche burocratiche del caso, nel luogo in mezzo al nulla dove è stata rinvenuta una fossa comune: accanto a uno dei corpi sepolti, un documento ha permesso l’identificazione. Un ragazzo deve essere forte, nel Messico senza diritti per i più deboli raccontato da Lorenzo Vigas, e Hatzín risale sul pullman che l’ha portato senza lasciar trapelare un minimo di incertezza o di emozione. Finché non accade che, dal finestrino del mezzo che lo sta riportando a casa, crede di riconoscere in un omone corpulento e barbuto proprio quel padre che crede di portare nella cassa. Fa fermare il pullman in mezzo alla strada e dà inizio a un percorso di avvicinamento a quell’uomo, descritto attraverso un’ostinazione quasi dardenniana. Ma l’uomo si chiama Mario (Hernán Mendoza), e pur essendo a suo modo gentile, non vuole avere a che fare con questo ragazzino insistente.
È facile pensare che la fossa comune, se fossimo rimasti in Argentina, avrebbe contenuto dissidenti politici, come erano i familiari della protagonista di El premio, il film d’esordio (2011) della Markovitch. Ma in Messico è più difficile stabilire o definire le ragioni di una sepoltura del genere; e, a tutti gli effetti, Vigas non si sforza di dare una spiegazione, saranno stati los “pinchos narcos”, come si lascia sfuggire Mario riguardo un’altra sparizione, della quale però conosce bene la meccanica e le ragioni: i narcos come passe-partout di ogni nefandezza. Perché il deserto messicano, luogo di transito di migrantes e traffici di ogni genere, è per tanti versi implicitamente acquisito come cimitero, come luogo dove sotto poche manciate di terra possono nascondersi dei corpi senza più nome.
È un film che lavora sulle superfici, La caja, a partire dallo stesso contenitore impenetrabile del titolo, per seguire con il volto quasi imperturbabile del suo protagonista, filmato spesso in primi piani trasversali e sfuggenti. E, appunto, questo deserto messicano di alture e slarghi pianeggianti si offre come una lavagna chiara dove tratteggiare, talvolta in campo lunghissimo, la presa di coscienza di un adolescente e al contempo le trame e le conseguenze orribili di un capitalismo scimmiottato da quello nordamericano, con ancora meno regole e garanzie, sotto la superficie di una presentabilità aziendale “moderna”.
Hatzín, d’altronde, è costretto a scoprire che sotto la superficie sicura ma non certo rassicurante di quella montagna di uomo nel quale ha creduto di riconoscere il padre non si nasconde una buona persona. Non che si ponga immediatamente il problema morale: al ragazzo occorre del tempo, e soprattutto gli occorre il confronto diretto con le azioni, la scelta di fare del male, per capire cosa scegliere, confrontarsi con l’abisso morale. E decidere cosa portarsi a casa, tra un padre biologico orribile e una cassetta di ossa a cui dare una sepoltura.