Dopo Pinocchio, Frankenstein. Guillermo Del Toro attinge ai classici per raccontare ancora una volta la passione per i diversi, i reietti, gli abbandonati. E se aveva affidato la sua rilettura collodiana all’animazione in stop-motion per il suo Frankenstein sceglie la strada del melodramma in costume, sfarzoso ma in fin dei conti inerte. Attenendosi piuttosto fedelmente al canovaccio narrativo del romanzo di Mary Shelley, Del Toro ne manipola il senso profondo, costruendo una sorta di apologo di una ribellione al rifiuto, un paso doble non privo di sfumature psicanalitiche.
Il giovane Victor Frankenstein è un bambino brillante e umorale, legatissimo alla madre-chioccia e intimorito dal severo padre anaffettivo (chirurgo prima di lui e per il quale dovrà mantenere alto il nome di famiglia). Quando la madre muore di parto dando alla luce il fratellino, Victor si chiude in sé stesso, covando nel petto l’idea di una sfida con la morte che gli aveva portato via ciò che aveva di più caro. Quando vede seppellire anche il padre, gli è in qualche modo chiara la strada di ricerca che gli si para davanti. Giovane ricercatore medico, sconvolge gli alti ranghi dell’Università di Edimburgo con le sue teorie per le quali, sostituendosi a un Dio fallace, l’uomo sarebbe capare di generare vita dalla morte, riuscendo così a sconfiggerla. Del Toro alterna il gusto per qualche shock visivo all’eleganza certosina della ricostruzione storica – siamo in pieno Ottocento, rispetto al romanzo ambientato nel secolo precedente: il gusto per i décor si riflette nei dettagli, negli arredamenti, nei costumi. Un po’ meno nella costruzione dei personaggi. Del Toro insiste in lunghe scene fin troppo reiterate alternandole con improvvise ellissi, sacrifica i personaggi di contorno – il mecenate pieno di segreti che finanzia l’esperimento di Victor, il fratello devoto e ignaro, la sua promessa sposa di cui Victor neanche troppo segretamente si innamora – che restano figurine abbozzate nonostante il peso narrativo che devono sostenere. E così il film si concentra, in maniera speculare, sul rapporto tra Frankenstein e la sua creatura.
A raccontarci la storia – la febbre del sogno da realizzare, la tragedia del fallimento e il senso di colpa che non sparisce – è prima lo scienziato e poi, in maniera inedita, il mostro stesso, che con la sua stessa voce ci spiega che mostro non è, che è violento solo per reazione al disgusto e alla violenza che è costretto a subire dagli uomini. Dividendo così il film in due parti Del Toro sottolinea in maniera evidente – e a tratti grossolanamente didascalica – quello che per lui è il nocciolo della questione: la solitudine di un essere che non ha chiesto di essere creato e che è stato respinto dallo stesso padre, che non lo riteneva all’altezza. Tra Victor e la creatura si sviluppa in fondo lo stesso rapporto che c’era tra Victor e suo padre. Niente di nuovo, se non che del “canone” Frankenstein è pieno il nostro immaginario e Del Toro, prendendosi molto sul serio, rischia di sfiorare la parodia. Citazioni su citazioni su citazioni per una storia che nasce quasi obbligatoriamente citazionista. Frankenstein è un film sovraccarico e sovreccitato, come la recitazione di Oscar Isaac, in continua estasi febbrile. La creatura, che in pochi salti temporali passa dal mormorio di una singola parola (il nome del “padre”, quasi una preghiera) a un fluent english viziato solo da una voce cavernosa, più che un essere errabondo in cerca di affetto e in fuga dagli occhi altrui che non sopporterebbero la vista del suo aspetto, è in realtà un adone pieno di cicatrici.
Insomma: per quanto trucco si possa usare è difficile rendere mostruoso Jacob Elordi, che dona alla creatura un fascino dark da eroe maledetto, troppo seducente per essere credibile. Se Frankenstein era il progetto che Del Toro inseguiva da una vita – summa e matrice di tutte le storie di esseri che sembrano abnormi ma che lo sono solo ai nostri occhi anaffettivi – il risultato è modesto: un luccicante involucro – la cosa migliore del film sono alcune scenografie, alcune location – in cui si ripete come un mantra il bisogno di inclusività, l’errore e la colpa, il desiderio di vendetta e l’ineluttabilità del destino, diluendo fino a rendere sbiadito il maggiore dramma insito nella storia – intuizione di sceneggiatura sprecata per troppa magniloquenza –: quello di un uomo che non ha chiesto di nascere e non può scegliere di morire.